AmericaLatina

La ciurma invisibile. Una giornata dei rider a Città del Messico

Come ulteriore tentativo di allargare lo sguardo verso le forme della logistica contemporanea in America latina, condividiamo con piacere questo reportage di Caterina Morbiato, uscito in aprile del 2018 sul n° 0 di Napoli Monitor “Lo Stato delle città”.

Chiamarli? Non aveva senso. Arandeni non ci pensò nemmeno per un momento. Fin dall’inizio la questione le era sembrata molto semplice: guadagnare un po’ di soldi, passare il giorno intero in sella alla bici, organizzare in autonomia i propri orari: avrebbe deciso tutto lei, lei e nessun altro. Qualunque cosa la convinceva di più che continuare a sprecare le sue giornate tra le quattro mura grigie del bar di quell’università privata.

E poi c’era quel pizzico d’avventura: pedalare in una megalopoli come Città del Messico, attraversare i suoi mille quartieri zigzagando tra le auto. Arandeni si era subito sentita parte di quella truppa che, nel giro di un anno, aveva invaso la città a bordo di bolidi di ogni sorta. Decine di ragazzi e ragazze, talvolta li incrociava in qualche zona tranquilla, al riparo dal sole, seduti sulle panchine di un parco a chiacchierare tra loro e scambiarsi sigarette. Tutti, naturalmente, con il cellulare a portata di mano. Perché in fin dei conti si trattava di questo: poter guadagnare un po’ di quattrini.

Quando successe l’incidente, Arandeni stava pedalando verso il quartiere La Roma per andare a caccia di un ordine di consegna. Per evitare il traffico di boulevard Cuauhtèmoc, aveva deciso di immettersi nella corsia riservata al metrobus. «Non ho calcolato bene le distanze e sono andata a sbattere contro uno dei quadratini gialli che separano la corsia. Ho fatto un volo tremendo!», ricorda ora.

Non pensò di chiamarli. Per cosa poi? Dal momento in cui era entrata a far parte della squadra di rider di Uber Eats, il servizio di consegne di cibo d’asporto gestito da Uber, Arandeni sapeva che in caso d’incidente non avrebbe ricevuto la minima assistenza da parte dell’impresa. E siccome non stava nemmeno andando a consegnare un ordine, non aveva nessun motivo di chiamare. Per questo decise di telefonare al fratello e ad altri due colleghi. Un ciclista che passava di là la aiutò a rialzarsi. Aveva una mano penzoloni, come un ramo spezzato. All’ospedale le diagnosticarono una frattura distale del polso sinistro; immobilizzarlo non era sufficiente, così fu sottoposta a un’operazione chirurgica. Una cicatrice verticale – lunga circa un centimetro e ancora fresca – attraversa i viticci verdi che la ragazza ha tatuati sull’avambraccio, come se fossero stati recisi con una falce. «Sarebbe fantastico se Uber Eats avesse un servizio di attenzione medica – osserva –. Quante persone sono state investite o sono cadute? Nessuno si fa carico di questi casi. Uber non fa nulla, perché in fin dei conti tu non sei un suo impiegato. Sei un socio».

Come in un videogioco

I numeri brillano sullo schermo del cellulare che Rafael conserva in un borsellino nero. “Tempo di connessione: quattro ore e cinquantuno minuti. Guadagno: 37,89 pesos (circa 1,60 euro)”. Rafael ha guadagnato poco meno di dieci pesos all’ora (44 centesimi di euro), ma non si perde d’animo. Ha ventisei anni e sa perfettamente quello che sta facendo.

Sono appena le otto di sera e il suo turno di lavoro – stabilito unicamente da lui – finirà alle tre del mattino. Non c’è motivo di abbattersi, dice. Ciò di cui ha bisogno per raggiungere la meta che si è prefisso quel giorno sono altre sette consegne. In un lavoro come questo, se lo ripete sempre, bisogna mostrare i denti. In un lavoro come questo, tutto dipende da te.

Rafael decise di provare con Uber Eats su consiglio di un amico, uno che con le consegne a domicilio era riuscito a pagarsi un viaggio fino in Germania. Farsi assumere fu un gioco da ragazzi: bisognava scaricare la App nel cellulare, compilare un modulo e iscriversi al Sat, la nostra Agenzia delle entrate. Per diventare “socio” dell’impresa non è necessario un colloquio, né dimostrare di avere esperienza. In realtà, nemmeno firmare un contratto. La relazione tra l’impresa e i lavoratori si stabilisce, quasi per intero, attraverso l’applicazione. «Se vuoi che ti assumano come autista è più complicato: vogliono conoscere i tuoi precedenti penali, devi avere l’auto assicurata – spiega Rafael –. Preferisco essere un rider, tutto quello di cui ho bisogno è la mia bicicletta e tempo a disposizione».

Rafael indica la sua bici, piccola e bianca, un po’ sgangherata. Per guadagnare 1.700 pesos (circa 74 euro) a settimana, deve pestare sui pedali per dieci ore al giorno, dal lunedì al sabato. «All’inizio mi connettevo dalle dieci del mattino fino alle due di notte. Dopo due settimane mi sono accorto che c’erano molte ore morte, pedalavo e pedalavo ma non trovavo nulla».

Le ore morte. Presto o tardi ogni rider ci fa i conti. I fattorini sono pagati a cottimo e non a ore; in questo modo Uber e altre piattaforme digitali che operano nel food delivery si proteggono da eventuali perdite economiche, mentre il costo dei tempi morti ricade completamente sulle spalle dei lavoratori. Facciamo un esempio: dopo aver consegnato un pollo arrosto con patate in via Pirineos a Lomas de Chapultepec, Rafael riceve un nuovo ordine di consegna dal ristorante Hooters di Polanco: una deliziosa insalata di gamberi e spinaci. Rafael accetta l’ordine, inforca la bici e pedala per circa tre chilometri fino al numero 353 di via Moliere: questo percorso non gli farà guadagnare assolutamente nulla. Quando poi arriva all’Hooters l’insalata non è ancora pronta. Rafael dovrà aspettare una mezzora prima che gliela consegnino. Anche quest’attesa è un tempo morto per cui Rafael non vedrà l’ombra di un centesimo.

Ma lui non si perde d’animo. In questo lavoro devi mostrare i denti, ripete. Devi conoscere i trucchi del mestiere. Ed è vero, il successo della sua giornata dipende da tanti elementi. Può darsi che gli arrivi una richiesta pochi minuti dopo che si è connesso alla App, o possono passare due ore. È poi importante dove e quando decide di iniziare a lavorare. Il cellulare deve essere rapido, perché la App non può impallarsi, quindi meglio se con il chip di una delle compagnie telefoniche maggiori. E la bici ben oliata, con manutenzione periodica, perché, se lo lascia a metà strada, la giornata di lavoro è perduta. «In un lavoro la parola “no” non esiste – spiega Rafael –. Non puoi rifiutare le richieste di consegna perché i clienti ti valutano, inoltre è meglio avere una percentuale alta di consegne accettate, così te ne arrivano di più. Io ho il 99% di valutazione e il 100% di accettazione».

Trasformare il lavoro in un gioco. Questo è uno dei segreti di Uber Eats. Ad aprile dell’anno scorso ne parlava un reportage del New York Times. Uber avrebbe passato in rassegna, con la consulenza di diversi scienziati sociali, i migliori metodi per indurre i propri autisti a lavorare più intensamente, con orari più estesi e perfino in zone e ore non troppo redditizie. Secondo il reportage le strategie adottate deriverebbero soprattutto dal mondo dei videogiochi. Oltre all’indice di valutazione e accettazione, che i rider ricevono continuamente sul loro telefono, la App fa leva su determinate caratteristiche psicologiche: la predisposizione a stabilire e raggiungere mete, per esempio. Queste strategie costituiscono quello che l’antropologa Natasha Schüll, specializzata nell’universo culturale delle slot machine, ha battezzato come il “loop ludico”. Si tratta di fabbricare un circuito che funziona attraverso delle ricompense aleatorie, in cui i giocatori rimangono ciclicamente incastrati.

Consegnare sempre più ordini ogni settimana, ottenere una valutazione migliore da parte dei clienti o passare di livello e diventare un rider argento, poi oro, poi platino. Il loop ludico di Uber si basa su metodi che stimolerebbero l’autista a sviluppare una dipendenza dal lavoro, come se questo fosse una sorta di gioco in cui bisogna raggiungere nuove mete in maniera compulsiva. Per rendere più funzionale il meccanismo, ai lavoratori di Città del Messico vengono messi a disposizione dei bonus che si possono ottenere facendo degli extra, come lavorare le domeniche, oppure partecipando alla “tariffa dinamica”: una promozione che in certi orari e in certe zone incrementa il valore delle consegne. In questo modo i rider potenzialmente possono guadagnare di più, ma al contempo devono pedalare verso zone in cui la richiesta di cibo a domicilio è ancora scarsa. Spesso, inoltre, si tratta di zone della città in cui il livello di insicurezza è alto.

L’avanzata della gig economy

Mezza dozzina di rider di Uber Eats aspettano di fronte al ristorante Carl’s Jr, nel centro storico. Alcuni, parcheggiata la bici, si sono stravaccati sul marciapiede, stanchi dell’attesa. Altri si fanno un giro, per vedere quanto lavoro c’è da queste parti. Tutti controllano febbrilmente il cellulare o il tablet.

«Oh! Ti è arrivato qualcosa?».

«Ma va, ancora nulla…».

È pomeriggio inoltrato e lungo il boulevard Reforma il traffico è ancora leggero. Le prime raffiche di vento annunciano l’arrivo della pioggia e i più avveduti iniziano sfoderare l’ombrello. Di tanto in tanto un trillo d’allerta spicca tra i ruggiti dei motori. Il Carl’s Jr è uno dei ristoranti di fast food che riceve più ordini di consegna, oggi però la giornata non sembra essere buona. Doris e Diana sono connesse da sei ore e hanno fatto quattro consegne ognuna, circa cento pesos a testa. Ora non sanno che fare, se disconnettersi e chiudere qui la giornata di lavoro, o pedalare verso il sud della città in caccia di ordini. Le due giovani si trattano con modi così complici e amichevoli che si stenta a credere che si siano appena incontrate.

«Ci conoscevamo già, ma solo nel gruppo di WhatsApp della comunità Uber».

«E oggi ci siamo viste per la prima volta!».

In queste anticamere virtuali molti e molte rider iniziano a stringere legami con il resto della flotta. Non si direbbe, ma condividere il mestiere, scambiarsi gli attrezzi per riparare una ruota o consigli su come essere più abili con le consegne, genera relazioni profonde. E questo è un dettaglio importante, soprattutto quando si tratta di affrontare un’azienda che rifiuta di avere una relazione di lavoro con i propri dipendenti.

Spesso nelle chat accade che qualcuno chieda: mi poncho? E tutti rispondono: sìììì, fallo! Nello spagnolo messicano ponchar significa forare la gomma di un veicolo, ma nel gergo dei rider allude al provocare un incidente di proposito o fingerlo. Funziona così. Di tanto in tanto capita che il fattorino debba consegnare un ordine bello grande. Grande e succulento. Un ordine talmente costoso che non potrebbe permetterselo nemmeno facendo dodici consegne. Può quindi succedere che il fattorino abbia una gran fame – o semplicemente si voglia togliere lo sfizio – e che ancora si trovi lontano dal punto di consegna. La leccornia, invece, è lì a portata di mano. È in quel momento che ci pensa e chiede agli altri: mi poncho? Se tutto va bene, dal centralino di Uber gli diranno che a causa dell’incidente può cancellare l’ordine e consumare gli alimenti trasportati.

In ogni lavoro esistono piccoli sabotaggi, micro-resistenze che i lavoratori mettono in atto per sopportare o contrastare le misure disciplinari. In Uber Eats c’è chi si poncha anche con ordini leggeri: delle ciambelle dolci, per esempio, che poi condivide con il resto della ciurma. È una maniera per addolcire l’attesa tra una consegna e l’altra, specie quando le ore morte sembrano non passare mai.

Ora che è estate gli ordini scarseggiano. Doris e Diana non credono di riuscire a completare il minimo di ordini necessari per raggiungere il bonus settimanale; se le cose continuano così, sarà difficile mantenere stabile l’incasso del mese. Secondo le ragazze qualcosa sta accadendo, e non si deve solamente alle vacanze: le consegne si sono ridotte troppo drasticamente. «I rider ormai sono una marea e Uber sembra non accorgersene – si lamenta Doris –. Le domeniche, per esempio, sono i giorni in cui si lavora di più. Se vai alla Condesa (quartiere residenziale di classe medio alta) di domenica, ci sono più fattorini che ordini di consegna».

L’aumento smisurato della flotta è un’altra delle pratiche controverse adottate da Uber e simili. L’assunzione aggressiva permette di disporre di un alto numero di impiegati facilmente rimpiazzabili e, nello stesso tempo, consente all’impresa di presentarsi come un soggetto dinamico, che genera migliaia di nuovi posti di lavoro. Da un lato questa modalità viene giustificata come risposta alla domanda crescente, d’altro lato ne deriva che il guadagno minimo per ogni lavoratore si assottiglia sempre più. Questa situazione esacerba lo spirito di competizione. «Tanti ne approfittano – dice Doris –. Dovrebbero considerarlo come un lavoretto extra e non come un lavoro fisso. C’è chi si spara due giorni consecutivi di lavoro e non permette agli altri di trovare consegne…».

A Brighton, in Inghilterra, nel febbraio 2017 i fattorini di Deliveroo hanno manifestato contro l’assunzione compulsiva di nuovi fattorini: le loro entrate stavano colando a picco. Lo sciopero, organizzato un sabato pomeriggio durante l’ora di punta delle consegne, ha provocato un crollo del 50% delle consegne in diversi ristoranti associati alla compagnia britannica.

Quello di Uber è un successo fulminante. Sul mercato ha un valore di sessantotto miliardi di dollari – seguita da Airbnb e WeWork, rispettivamente con trentuno e ventuno miliardi. L’impresa fondata da un imprenditore canadese e un programmatore californiano è cresciuta a ritmo vertiginoso e il Messico è una delle sue roccaforti: sette milioni di utenti registrati, presenza in ventuno dei trentadue stati messicani e in trentacinque città, dieci nuove città da includere entro la fine del 2018. Nel settore dei viaggi in taxi, in poco più di quattro anni il Messico si è posizionato al terzo posto per volume di corse effettuate, appena dopo gli Stati Uniti e il Brasile.

Il successo è segnato anche dalle critiche; quelle dei tassisti, per esempio, che in ripetute occasioni hanno accusato Uber di giocare sporco. E quelle degli stessi utenti: le frequenti denunce di furto, molestie e violenze sessuali ai danni di varie clienti, hanno logorato la fiducia nella sicurezza del servizio, una delle qualità con cui l’impresa si è presentata sul mercato messicano.

Nonostante le difficoltà, Uber ha dichiarato di voler investire 6.850 milioni di pesos (320 milioni di euro) durante il 2018 per raddoppiare il numero degli autisti – attualmente circa 230 mila – ed espandere il servizio in nuove città e stati della repubblica messicana. Dal canto suo, Uber Eats, lanciata a Città del Messico nell’ottobre 2016, è già attiva in altri importanti centri urbani e comprende un totale di quattromila ristoranti.

I rider e gli autisti di Uber infoltiscono le schiere dei lavoratori della cosiddetta gig economy, letteralmente “economia dei lavoretti”, un modello basato su impieghi temporanei e occasionali, amministrati attraverso piattaforme digitali che connettono domanda e offerta in modo rapido e agile. Un lavoro “on demand”, pagato a cottimo, che riserva obblighi lievi alle imprese, sollevandole dal rispetto di quei diritti che dovrebbero essere garantiti da un contratto di lavoro: ferie, malattie pagate, un salario orario minimo. Eppure, le imprese della gig si promuovono come agenti di rivitalizzazione economica, soprattutto in quei contesti dove il tasso di disoccupazione è alto, presentando allo stesso tempo flessibilità e indipendenza come gli aspetti più attraenti dell’impiego proposto. Dietro la figura del socio “capo di sé stesso” si nasconde però un sistema di sfruttamento accettato e perfino celebrato socialmente.

Un giorno senza uberenos

Dalle parti del Carl’s Jr le gocce iniziano a cadere, grosse e affilate. Le ragazze non sanno che fare. Diana esita ancora: casa sua sta lontano, verso Tlanepantla, in estrema periferia. A volte, per tornare, usa il metrobus, ma di solito preferisce pedalare, anche se in questo modo rincasa all’una o alle due di notte.

Diana non è l’unica che vive così lontano. Molti rider vengono dai sobborghi che cingono la capitale: Tlalnepantla, Ecatepec o Chimalhuacàn. Buona parte di loro si muovono in bici. Prima di tornarsene a casa devono pensarci bene, considerare se è valsa la pena farsi tutti quei chilometri di strade malmesse che li separano dai quartieri del centro. Non tutto però si fa per soldi, assicura Diana: «Quando ancora non mi andava troppo male, pensavo: in fin dei conti mi pagano per allenarmi, sto facendo esercizio e divento ogni giorno più resistente». «Anche io la pensavo così – interviene Doris –. Mi dicevo: ci sono ragazze che vanno ad allenarsi e mica le pagano».

Doris e Diana ancora non si decidono. In fin dei conti è divertente stare con il resto del gruppo e poi, chi lo sa, da un momento all’altro qualche ordine di consegna può spuntar fuori. Specie ora che ha iniziato a piovere forte e che tanti rider rinunciano a uscire.

«Quando piove questa città sta meglio. Le particelle inquinanti diminuiscono: passano dall’aria al sottosuolo e così almeno non le respiriamo più». Patricia Segura Medina, direttrice del Dipartimento di iperreattività bronchiale dell’Istituto nazionale di malattie respiratorie (INER), cerca di tradurre in parole semplici l’universo degli elementi che contaminano l’aria di Città del Messico.

Dal suo laboratorio, la dottoressa passa al dettaglio tutti i veleni che vengono inspirati dagli abitanti della capitale: piombo, ozono, materiale particolato, monossido di carbonio. L’aria della metropoli è una vera e propria minaccia per la salute: ai cinque milioni e mezzo di automobili che saturano le strade si aggiunge la ricchezza di contaminanti, tanto polveri, pollini e spore, come quelli generati dall’attività umana. L’inquinamento è fonte di una lunga lista di malanni: sinusiti, riniiti, congiuntiviti, asma, allergie alimentari e dermatiti, malattie di tipo cronico come la Bpco (bronco-pneumopatia cronica ostruttiva), o cronico-degenerative come il diabete. «I ciclisti sono la popolazione più a rischio – afferma la dottoressa Segura –. Una persona che rimane seduta, senza fare sforzi, ogni volta che respira muove un volume minimo d’aria. Ma chi pedala con velocità costante e con una frequenza respiratoria normale ha bisogno di una quantità doppia o tripla di quella consumata quando si è a riposo. In più, i ciclisti dovrebbero circolare a non meno di cinque metri dalla fonte di inquinamento, ma in questa città le piste ciclabili, quando ci sono, stanno ad appena un metro di distanza».

Brian lavora come corriere da quando aveva sedici anni. Suo zio, che era proprietario di una lavanderia, un giorno gli chiese di consegnare un sacco di biancheria pulita a un cliente. Da allora Brian iniziò con le consegne, per suo zio ma anche per altri negozi del quartiere. La sua regola numero uno è lavorare sempre con la bici: l’auto o il motorino non vanno bene per un mestiere dove la prima cosa che conta è essere abili e rapidi. Ora Brian di anni ne ha ventidue e lavora quattordici ore al giorno, consegnando ordini per tutta la città. È una specie di giovane veterano del delivery. «Prima – racconta – il contatto con i proprietari dei negozi e dei ristoranti avveniva in maniera diretta, senza imprese tra i piedi. Le relazioni erano più umane, ma anche il guadagno era migliore».

L’anno scorso Brian ha deciso di entrare a far parte della flotta di Uber Eats. Voleva farsi un’idea di come funzionava la nuova piattaforma di cui tutti parlavano. Poche settimane dopo si era già disconnesso, ripugnato dal salario – «è quasi come essere schiavi» –, dalla mancanza di formazione e, in generale, dall’abisso che esiste tra chi si fa le gambe in strada e chi dirige il gioco dalla fresca aria condizionata dell’ufficio. «Quello che mi fa più arrabbiare è che tu, Uber, disponi di persone che lavorano per te e che però non sono registrate come lavoratori ma come micro-imprese che affittano i tuoi servizi. Come puoi mettermi alle tue dipendenze senza farmi un contratto?».

Le condizioni di lavoro possono essere distinte. La compagnia di spedizioni dove ora lavora Brian offre ai propri dipendenti un’assicurazione sulla vita (per incidenti e danni a terzi), un salario orario e una formazione iniziale dove altri membri dello staff (ciclisti pure loro) valutano il livello di ogni nuovo fattorino. “Dettagli” che fanno sentire soddisfatto Brian. «Quello del rider è un lavoro ad alto rischio, ti possono investire, assaltare, imbrogliare in mille modi. Ti può succedere di tutto. Ma a Uber non importa nulla. Si vanta della qualità del servizio, ma se ne frega di quello che ti succede. Nemmeno gli zaini sono sicuri: sono ingombranti per una bici, non ti fanno avere una buona visuale. È come portarsi appresso una bara».

Quando Arandeni fece l’incidente, Brian fu tra gli amici che arrivarono per soccorrerla e accompagnarla all’ospedale. Non era la prima volta che andava ad aiutare un collega. Dall’intervento in caso di incidente, fino al soccorso nel momento di un’aggressione; dai consigli su come riuscire a fare più consegne, fino all’assistenza per sostituire una gomma bucata. Il mondo dei rider di Uber, e dei fattorini in generale, funziona come una piccola società che si unisce in caso di bisogno. In altri paesi queste forme di cooperazione sono state trasformate in una risorsa preziosa per l’autorganizzazione. Da Londra a Milano, passando per Madrid, Parigi e Berlino, i fattorini di Uber Eats, insieme a quelli che lavorano per altre grandi piattaforme, hanno fatto fronte comune. «Sappiamo che in altri paesi hanno scioperato – riconosce Diana –. Ma nel nostro gruppo Facebook la maggior parte della gente dice che alla fine Uber è semplicemente un’applicazione; che non siamo impiegati ma soci e quindi non possiamo chiedere troppo».

Dall’estate 2016 i rider d’Europa hanno organizzato una serie di scioperi per esigere il miglioramento delle loro condizioni. Uno degli obiettivi principali è essere riconosciuti a pieno titolo come lavoratori che devono godere dei diritti di base. Un caso esemplare è quello della rider inglese Maggie Dewhurst, che nel gennaio 2017 ha portato a giudizio l’impresa di consegne City Sprint. Dopo mesi di sedute in tribunale, a Dewhurst è stato riconosciuto lo status di worker, una categoria contrattuale che gode di determinati diritti come le ferie pagate e il permesso per malattia.

Dopo numerose manifestazioni, i rider europei sono arrivati alle porte del G7 del Lavoro, celebratosi a Torino il 29-30 settembre 2017. Uniti in un’assemblea internazionale, hanno discusso su come ottenere un salario minimo e organizzare strategie condivise per uscire dall’invisibilità. Questioni urgenti che non sono esclusive del mondo dei rider, ma che riguardano chiunque lavori in condizioni di precarietà. Mentre le proteste si moltiplicano in Europa, molti si chiedono cosa succederà da questa parte dell’oceano. L’attenzione si concentra sul Messico, il primo paese latinoamericano in cui Uber ha esteso il proprio impero.


Caterina Morbiato è antropologa e giornalista freelance. Si occupa di lavoro e nuove tecnologie, trasformazioni urbane, migrazioni. Ha scritto per Napoli Monitor, Il Manifesto, Altaïr, Vice, Animal Político. Vive a Città del Messico.

Foto di Stefano Morrone. Per vedere altre foto dell’autore, clicca qui.

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