Interviste

Circolano valore e violenza. Un dialogo sulla logistica con Deborah Cowen

Pubblichiamo l’intervista di Niccolò Cuppini a Deborah Cowen inclusa nel volume Un mondo logistico. Sguardi critici su lavoro, migrazioni, politica e globalizzazione a cura di Niccolò Cuppini e Irene Peano.

Qua indice e presentazione del libro: 

http://www.intotheblackbox.com/events/out-now-un-mondo-logistico-sguardi-critici-su-lavoro-migrazioni-politica-e-globalizzazione/ 

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NC: Fino a una decina di anni fa la logistica era un campo di studi definito soprattutto dalle discipline ingegneristiche, dei trasporti e del management, mentre ultimamente stiamo assistendo a una attenzione crescente per la logistica da parte delle scienze umane e sociali, nonché nella teoria critica. Per te a cos’è dovuto questo cambiamento? Inoltre, pensi che questo possa essere motivato a partire dalle lotte che si sono espresse negli spazi logistici, o comunque pensi che queste lotte abbiano contribuito a inquadrare l’importanza analitica della logistica per la comprensione della contemporaneità? Altre due domande: pensi ci sia un collegamento tra questa nuova attenzione critica sulla logistica e la crisi finanziaria del 2007/2008? Infine, cos’è che ti ha portato a interessarti di logistica?

DC: C’è indubbiamente stato un affascinante flusso di nuovi lavori sulla logistica al di fuori dei campi applicativi dell’ingegneristica, dei trasporti e soprattutto delle scuole di business. Questa nuova produzione di sapere nonché di forme di organizzazione nei movimenti (e ho sia partecipato che contribuito ad essi) mi intriga soprattutto a partire dalla sua profonda interdisciplinarietà, con l’apporto di molti interventi importanti che provengono da un variegato spettro di voci radicali – a livello sia teorico che politico. Va aggiunto che i dibatti recenti sono stati molto caratterizzati dalla voce delle donne, e in particolare da donne di colore, una cosa da sottolineare soprattutto all’interno di ambito di riflessione che parla di economia politica globale e di imperialismo. Questo impegno critico proviene sia da luoghi accademici che dai movimenti sociali e sindacali (e ovviamente i due ambiti si mescolano). Inoltre questa eterogeneità di prospettive e alleanze critiche è interessante perché stiamo comunque parlando di un gruppo di persone relativamente piccolo, ma questi dibattiti stanno avendo un’influenza ampia: non voglio dire che, per ciò che conosco, la logistica sia diventata una nuova parola chiave all’interno delle reti radicali, ma sta sicuramente diventando un qualcosa di familiare.

Una questione che va posta è quanto siano effettivamente nuove le lotte negli spazi logistici. Ci sono indubbiamente state straordinarie lotte ultimamente, ma va considerato che la logistica ha una genealogia imperiale che comprende importanti storie di conflitti in porti, circuiti stradali, zone di canalizzazione, ferrovie e svariate altre infrastrutture di circolazione. Quindi penso sia necessario considerare con attenzione la “novità” delle lotte recenti, concentrandosi magari di più su come esse abbiano condotto a un nuovo modo di nominare le lotte. Questo è un punto importante, che penso rifletta una transizione in atto rispetto alla crescente integrazione dei sistemi di circolazione, e allo stesso modo evidenzia come connessioni e relazionalità tra gli spazi logistici siano un tema decisivo per chiunque ricerchi un pensiero strategico per la costruzione di un’immaginazione contro-logistica.

Posso parlare di ciò che mi ha personalmente condotto a concentrarmi sulla logistica. C’è stato un momento molto specifico, non nel 2007/2008 ma nel 2001, quando vennero chiusi i confini degli Stati Uniti: molti settori statuali e delle grandi aziende dichiararono uno stato di crisi. Ma la loro crisi non era legata agli attacchi sul suolo statunitense o alla perdita di vite, di sovranità, né a nessuno di questi temi. La loro preoccupazione era per la perdita dei flussi. La chiusura dei confini poteva significare il blocco delle supply chain  transnazionali – soprattutto nella mia esperienza nel settore delle auto della Detroit-Windsor Just-in-Time. I manager delle supply chain coi quali parlavo all’epoca sostenevano addirittura che le vecchie forme di sicurezza nazionale (quelle basate sul controllo dei confini territoriali) erano ormai diventate una minaccia per la sicurezza della nazione. Non a caso molti stati liberali a capitalismo avanzato avevano iniziato a definire il commercio globale come un asse strategico della sicurezza nazionale.

Le supply chain transnazionali non sono chiaramente un fenomeno nuovo – il termine emerse con l’affermarsi del sistema degli Stati nazionali che divise il mondo in specifiche giurisdizioni, e le relazioni commerciali si muovevano per lo più attraverso questo sistema di nazioni. Ma il ritmo e il volume di queste relazioni è andato via via espandendosi per vari decenni, grazie alle nuove tecnologie fisiche, digitali e legali – soprattutto i computer e i container da un lato, le bandiere di comodo per l’industria navale e gli accordi per il commercio globale dall’altro. Un qualcosa dunque che ha prodotto una graduale trasformazione di lungo periodo, e che adesso spinge e necessita di un cambio di paradigma. È dunque stato quel momento di crisi e i conseguenti tentativi di definire una nuova pratica per la sicurezza nazionale tutta dedicata alla protezione delle infrastrutture per la circolazione e il commercio che mi ha portato a occuparmi di logistica. I discorsi e le pratiche di sicurezza mi affascinano perché possono rilevare cosa effettivamente minacci un sistema. Per i “sovranisti della supply chain” ciò che va in primo luogo neutralizzato (se possibile) è un insieme di differenti forze che minacciano la possibilità di una circolazione liscia e senza interruzioni o, laddove ciò non sia possibile, il definire come controllare queste forze attraverso la strutturazione di sistemi resilienti. Il dichiarare la disruption (interruzione, perturbazione) come principale elemento di crisi rivela molti aspetti di come funziona il sistema, e ci indica al contempo chi lavora contro il sistema.

NC: L’interesse crescente per la logistica sta comportando una sorta di “stiramento” del concetto. La logistica rappresenta una lente molto produttiva, che può essere adottata criticamente in molti ed eterogenei contesti, ma al contempo c’è il rischio che ciò conduca a dire che “tutto è logistica” – il che riduce la sua utilizzabilità come prospettiva critica e nasconde molte altre questioni decisive. Cosa ne pensi? Potresti darci una “definizione” di logistica?

DC: Sono molto interessata alle implicazioni di questa domanda, anche perché mi è stata posta spesso e non mi è chiarissimo cosa stia conducendo a questa problematica. Sono impegnata da tempo in un tentativo di sviluppare una concettualizzazione precisa, e sono consapevole che i concetti possono perdere di potenza se utilizzati in modo impreciso. Ma sono anche incuriosita da cos’è che preoccupa di questo “stiramento” nell’attuale proliferare dei lavori sulla logistica. Mi chiedo infatti se un pò di questa ansia non sia almeno parzialmente provocata dalla diversità di teorie e metodologie dei lavori critici cui facevo riferimento prima. Personalmente apprezzo che stiano emergendo una sinfonia di voci e approcci radicali. Mi fa pensare a una frase di Guattari: “il punto non è creare un accordo; al contrario, meno siamo d’accordo, più possiamo creare un campo di discussione vivace”. Credo che questi dibattiti stiano creando esattamente vivacità all’interno del campo della logistica.

Ciò non significa che non sia problematico dire che tutto è logistica o il guardare ogni cosa come se fosse logistica, anche perché la logistica è stata per secoli estremamente imperialistica nelle sue principali incarnazioni. Se una lente logistica enfatizza il flusso, il movimento, la circolazione e la connettività spaziale, c’è il rischio di spingere ai margini della nostra immaginazione politica le lotte che si determinano all’interno della specificità dei luoghi, che si strutturano attorno alle “materialità” fisse e non in movimento. Ovviamente posso rispondere solo per ciò che concerne il mio percorso, e rispetto a come credo che il mio lavoro possa porsi rispetto ai limiti del mio stesso focalizzarmi sugli spazi logistici negli ultimi anni. Effettivamente questo problema spiega perché ultimamente sono diventata così fissata sulla politica e l’economia politica delle infrastrutture. La mia risposta prova dunque a prendere in considerazione questi aspetti, e mi ha portato ad approcciarmi anche alle infrastrutture, con un interesse e delle domande che sono nate dal mio interesse nella logistica (e chiaramente non sto dicendo che sia possibile separare nettamente logistica e infrastrutture). Il punto è che per considerare la costruzione delle infrastrutture fisse che sostengono i flussi ho dovuto un pò spostato il mio focus: dal movimento tra, alla connettività fra. Il mettere in primo piano le infrastrutture è un passaggio che consente di enfatizzare la specificità dei luoghi, delle reti, dei nodi. Infrastrutture e logistica offrono sguardi e lenti distinte, ma hanno bisogno l’uno dell’altro.

NC: Qual è per te la relazione tra logistica e processi di globalizzazione? In un momento storico in cui sembra che la globalizzazione sia sempre più messa in discussione (pensando ad esempio all’emersione di un’onda protezionista e nazionalista), come pensi che la logistica possa aiutarci a comprendere le tendenze attuali?

DC: Credo che la crescita del protezionismo sia senza dubbio legata all’etno-nazionalismo e a una profonda paura razziale, che stanno riportando non solo al rafforzamento dei confini, ma anche al rinnovato ruolo della geografia politica delle pratiche di confinamento – soprattutto in Europa e negli Stati Uniti. Proprio in questo momento, mentre stiamo facendo questa discussione, assistiamo alla legalizzazione della separazione delle famiglie migranti e alla definizione di nuove pratiche detentive per i migranti negli USA, e proprio oggi stavo leggendo che la Danimarca vuole adottare una nuova politica di identificazione dei bambini dei “ghetti” delle comunità migranti, per poterli separare dalle famiglie per almeno 25 ore alla settimana per corsi di formazione obbligatoria ai “valori danesi”. Abbiamo visto il razzismo della Brexit, e una generale messa in discussione del modello di globalizzazione neoliberale che aveva costruito una crescente “integrazione” economica e delle politiche commerciali nell’ultimo mezzo secolo. Trump ha provocato dibattiti ansiogeni sul futuro del NAFTA con il Nord America, conducendo a bizzarre convergenze tra elementi della destra e della sinistra nell’analisi sul futuro della “globalizzazione”. Al contempo credo che le traiettorie che stanno emergendo siano distinte: tra l’approfondirsi delle restrizioni alla mobilità umana (soprattutto per i corpi neri e di colore) e il complicato ridisegnare (ma non ridurre) il movimento delle merci. Le forme di protezionismo che vediamo sulle questioni commerciali sembrano più legate alla ridefinizione delle relazioni di potere tra le nazioni all’interno di sistemi di circolazione transnazionale profondamente intrecciati, piuttosto che indicare un loro blocco o disattivazione. Credo sia tutto da vedere come possa essere prodotto un effettivo cambiamento in un capitalismo così profondamente radicato nelle supply chain.

NC: La logistica sembra essere sia il punto di forza che l’elemento di debolezza del capitalismo contemporaneo, considerando il potere definito dal muovere globalmente le merci ma anche la grossa criticità che questa capacità presenta, poiché un’interruzione della supply chain mette a rischio la riproduzione sistemica ben oltre il singolo punto di blocco. Tuttavia, se ampliamo la riflessione in termini storici, può essere utile riprendere l’approccio che ha proposto Giovanni Arrighi ne “Il lungo XX secolo”. Qui Arrighi sostiene che ogni ciclo egemonico di accumulazione (ogni sistema-mondo per usare i suoi termini) si è sviluppato nella modernità attraverso una simile progressione: una fase aurorale caratterizzata dall’economia mercantile; una fase di picco legata all’emersione di un nuovo sistema produttivo che si impone sul resto; una fase crepuscolare quando si verifica la crisi di tale modello di produzione, e il sistema deve conseguentemente spostare il suo baricentro verso la logistica e la finanza per far fronte a tale crisi produttiva. Se seguiamo questo modello interpretativo, potremmo forse considerare l’attuale importanza di logistica e finanza quali decisivi vettori dell’economia contemporanea non una nuova forma di egemonia globale, ma piuttosto un segnalatore della crisi (finale?) del sistema-mondo a guida statunitense. Che ne pensi, soprattutto a partire dalla tua prospettiva canadese?

DC: La logistica non è circolazione e distribuzione nel senso ristretto di un semplice movimento di cose. Penso che questo sia uno degli aspetti più interessanti della rivoluzione avvenuta nella logistica, per come l’ho compresa e rispetto a come ne ho scritto. La rivoluzione nella logistica ha prodotto, nel secondo dopoguerra, una nuova scienza della circolazione, che include esplicitamente i processi di produzione. La genesi della logistica commerciale (in opposizione alle precedenti forme legate al militare) è stata un deliberato ricalibrare il campo della “distribuzione fisica” attraverso l’introduzione di metodi derivati direttamente da istituzioni totali dell’esercito e dell’analisi sistemica. Questo significa concretamente che i “movimenti materiali” prima, dopo e all’interno dei processi di produzione sono stati considerati come logistica commerciale,  come parti del complessivo sistema di business da controllare e ottimizzare. La stessa produzione è stata disaggregata in singole componenti di movimento fisico che sono state ridistribuite per poterne massimizzare il valore. Se prendiamo seriamente in considerazione questa concezione della logistica, non sono sicura che la vostra domanda possa trovare una chiara risposta. Non sono in altre parole sicura che questa questione possa essere definita come un o/o oppure come un sì/e. L’emergere della logistica potrebbe indicare sia l’emergere di una nuova egemonia globale che la crisi del sistema-mondo a guida statunitense. Forse indica anche il modo in cui l’egemonia imperiale si sta ricentrando nell’Est.

NC: Proviamo ora a discutere la logistica a partire da una prospettiva di classe, considerare alcune delle linee diagonali che l’hanno storicamente messa in forma, attraversata e frammentata: genere e razza.

Nelle conclusioni del tuo libro The deadly life of logistics proponi di “queerizzare la logistica” (“queering logistics”), intendendo il queer come un progetto di denaturalizzazione immanente al capitale, avente la capacità di “building different economies of (human) natures”. Giustamente ti soffermi sulla correlazione tra desiderio sessuale nella bio-, necro- e geo- politica e sulla natura infrastrutturale del desiderio nelle supply chain, e sul fatto che la sessualità è “calibrated to, installed within, and productive of infrastructures of political and economic life”. Indichi inoltre la dimensione biopolitica della logistica, in quanto essa riguarda anche direttamente il corpo dei lavoratori (così come anche forme non umane). Ciò nonostante va sottolineato che la centralità di desiderio e sessualità in questi processi ha ricevuto solo scarsa attenzione da parte degli studiosi rispetto a quale ruolo giochino queste dinamiche nella logistica e nelle supply chain globali. D’altronde gli eserciti moderni – per citare uno dei luoghi originari dell’organizzazione logistica – hanno fatto molto affidamento e si sono basati su un lavoro riproduttivo genderizzato e razzializzato. Potresti approfondire come intendi il ruolo di sessualità e desiderio, e più in generale la riproduzione sociale, in relazione alla logistica, e come pensi che essa possa (e le economie più in generale) essere queerizzata?

DC: Grazie per l’aver iniziato una domanda sulla classe a partire dal tema della riproduzione sociale e della differenza sociale! Penso che la domanda abbia già delineato piuttosto elegantemente alcune delle mie riflessioni, ma ne approfitto per elaborare un altro pò sul tema della riproduzione sociale, che ha ricevuto una certa attenzione a partire dai lavori femministi sul lavoro di cura. Sono stata sempre affascinata dal tema logistica e riproduzione sociale perché la prima sembra un’incarnazione militarizzata, professionalizzata e profondamente strumentalizzata della seconda. La genesi della logistica come pratica militare per la fornitura delle truppe e per il sostegno alla battaglia implica che le precedenti incarnazioni della logistica erano interamente orientate all’alimentare, rifornire e proteggere – le attività che tendenzialmente associamo al lavoro di riproduzione sociale – ma con uno specifico focus sulla vittoria e avendo la vita umana quale risorsa. Possiamo inoltre indicare le pratiche di conquista imperiale come battaglie logistiche – come pratiche di conquista tramite l’individuazione del sistema logistico quale “nemico”. Ciò è stato evidente negli attacchi aerei alle infrastrutture critiche nella Seconda guerra mondiale, ma lo è stato anche in precedenza. Ad esempio nel “movimento a Ovest” nell’America del Diciannovesimo secolo, quando la strategia militare per ripulire le pianure aveva individuato le risorse alimentari delle popolazioni indigene come nemico, attraverso il massacro dei bisonti. Il generale Sheridan descrisse gli Indiani come un esercito nemico e teorizzò che il miglior modo per tagliare la loro “base di sostentamento” fosse la caccia al bufalo. In questo senso si può intendere come la profonda preoccupazione della logistica nella sua storia moderna sia stata sia il produrre vita che il produrre morte, e credo che questo sguardo biopolitico venga rafforzato nelle pratiche logistiche aziendali – dove si realizza una penetrazione strisciante da parte delle aziende logistiche fin nell’intimo dello spazio domestico. Ci sono talmente tante altre possibilità per poter discutere questo tema, anche in modi più dettagliatamente empirici  (e sto attualmente lavorando a un qualcosa di simile col mio amico e collega Wes Attewell), che penso di potermi fermare qui per il momento.

NC: Il settore logistico è caratterizzato a livello globale da un decisivo processo di razzializzazione della forza lavoro. Inoltre alcuni autori (come ad esempio Stefano Harney e Fred Moten) si stanno concentrando sul definire una genealogia della logistica profondamente intrecciata con la schiavizzazione e con la interrelata strutturazione delle rotte atlantiche. La tua genealogia della logistica però è centrata molto chiaramente sulle trasformazioni militari dello stesso periodo. Pensi che le due prospettive possano essere in qualche modo accordate? Inoltre, in The Deadly Life of Logistics richiami l’articolo “The Economy’s Last Dark Continent” di Drucker quale riferimento cruciale per l’emergere di una sorta di “coscienza” del ruolo ricoperto dalla logistica. E anche in questo titolo risuona la questione coloniale/razziale…

DC: Non sono sicura che sia possibile di parlare di “due prospettive”, in quanto l’imperialismo si basa sull’insieme di tutte queste istituzioni e pratiche. Io credo che la logistica sia emersa nel contesto della guerra imperialistica, ma come suggerivo in precedenza, le popolazioni colonizzate sono spesso state concepite come forze nemiche, se non proprio escluse dal perimetro dell’umanità. Questa volontà di de-umanizzazione è costitutiva della tratta schiavistica trans-atlantica, dove gli umani venivano governati come carichi di merce. Su questo sono totalmente d’accordo con Harney e Moten, sul fatto che qui si realizzi una moderna incarnazione della logistica. Ho anche scritto sulla logistica della violenza coloniale tra Nord America e Isola delle Tartarughe, e sulle storie della pirateria, come questioni logistiche, quindi davvero non credo sia possibile parlare di una secca distinzione per come la ponete nella domanda, e vorrei certamente andare oltre di essa.

NC: Tornando all’inizio di questa discussione, negli ultimi anni il settore logistico è stato attraversato a livello globale da una sequenza di scioperi, agitazioni, lotte e frizioni – come mostra il libro Choke Points. Logistics Workers Disrupting the Global Supply Chain (curato da Jake Alimahomed-Wilson e Immanuel Ness – Pluto Press). Anche questo processo di lotte ha contribuito a far tornare le lotte dei lavoratori e i movimenti sindacali all’interno dei dibattiti critici, cosa non così usuale un pò di anni fa. Come consideri queste lotte e come le inquadri entro una prospettiva di classe? Come pensi sia possibile collegare la forza dei lavoratori della logistica, che si realizza a partire dalla posizione strategica che essi ricoprono, all’interno della più ampia catena di posizioni lavorative delle supply chain? Inoltre in un tuo recente articolo, Infrastructures of Empire and Resistance, hai parlato di una “politica delle infrastrutture”. Potresti spiegare cosa intendi con ciò, e anche aggiornare il quadro che tracciavi in quel contributo dove parlavi di Calais, di Standing Rock e di Black Lives Matter?

DC: Non c’è dubbio sul fatto che ci sia una crescente consapevolezza del potere di blocco nei contesti del capitalismo delle supply chain, del potere di camionisti, portuali e tranvieri che lavorano nei colli di bottiglia della circolazione commerciale – e questo è legato alle lotte del lavoro cui fate riferimento. Non penso sia tuttavia possibile parlare in generale di una forza dei lavoratori della logistica derivata dalla loro posizione specifica nel processo lavorativo, in quanto sussistono enormi differenze di potere, autonomia e di condizioni di lavoro all’interno di ogni singolo lavoro logistico e in ciascun differente sistema giuridico. Per esempio i portuali e i camionisti dei porti, pur lavorando nello stesso luogo, vivono condizioni salariali e lavorative estremamente polarizzate. Ma è possibile spingerci anche oltre, se consideriamo l’asimmetria e la diseguaglianza che vengono organizzate tramite i sistemi di razzializzazione e genderizzazione, o a partire dallo status nazionale, che sono prodotte anche all’interno delle singole categorie occupazionali, o ai modi in cui il lavoro logistico viene concretamente segmentato lungo queste linee. Ma possiamo complicare ulteriormente il discorso insistendo sui modi in cui la rivoluzione nella logistica ha riplasmato il lavoro e le condizioni di lavoro anche in posizioni o occupazioni che possono non sembrare immediatamente logistiche, incluse quelle piuttosto centrali nei processi di produzione, che come ho suggerito sono oggi inestricabili dalla logistica.

I lavoratori sono stati cruciali per il mio interesse e per la mia conoscenza sulla logistica, ma voglio anche dire con chiarezza che le lotte sulla logistica e le sue infrastrutture vanno comprese nel loro essere legate all’imperialismo e nel loro legame coi conflitti sulla terra e sui mezzi di sussistenza in senso più generale. E non sono certamente l’unica a farlo. Il primo libro di testo in quello che è stato recentemente designato come campo della “sicurezza delle supply chain” evidenzia una serie di rischi per l’integrità delle supply chain, e rimarca il potere di ciascuno e a tutte le latitudini di poter minacciare la possibilità di una circolazione liscia e senza interruzioni: pirati e forze anti-coloniali, lavoratori, terroristi, trafficanti, eruzioni vulcaniche, eventi climatici. In questo senso, tutte le lotte sulla logistica e sulle infrastrutture sono paradossalmente connesse, in quanto sono tutte basate sul potere di definire chi e che cosa si muove, dove, quando e come.

 

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