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Investigating Logistics. Institute for European Ethnology della Humboldt-Universität di Berlino 19-30 settembre 2016

Con un’intensità e un’evidenza crescente la logistica si sta rivelando una chiave di lettura sempre più funzionale alla comprensione delle mutazioni che contrassegnano il nostro tempo. All’interno dell’accademia, l’interesse verso di essa è cresciuto fortemente a partire almeno dall’alba del nuovo millennio, fuoriuscendo dagli ambiti tecnici e manageriali in cui era rimasto confinato fino a qualche tempo fa. In linea generale, infatti, la logistica si è sempre caratterizzata quale vettore volto alla razionalizzazione della mobilità di merci, eserciti e soggetti. Le sue radici sono rintracciate, per l’appunto, nelle nuove necessità militari e commerciali nate dalla “scoperta” di inedite dimensioni spaziali nella prima età moderna. Tuttavia, nel corso del tempo essa si è imposta come nuovo paradigma organizzativo complessivo non soltanto nella riorganizzazione delle forme produttive, ma anche nella ridefinizione delle stesse spazialità politiche. La sua utilità interpretativa è divenuta dunque parte essenziale nell’analisi sulla globalizzazione, caratterizzata dalla retorica dei flussi, degli spazi lisci e ininterrotti, e dalla «compressione spazio-temporale», per utilizzare l’efficace formula di David Harvey.

A partire anche da queste prospettive che delineano di per se stesse la produttività analitica della logistica, tra il 19 e il 30 settembre, presso l’Institute for European Ethnology di Berlino, si è svolta la Kosmos Summer University che ha preso proprio il titolo di “Investigating Logistics”. Organizzata grazie alla collaborazione della Humboldt-Universität e del Berlin Institute for Empirical Migration and Integration Research (BIM), e alla cooperazione della Leuphana University di Lüneburg, l’incontro ha visto la partecipazione di numerosi studenti, ricercatori e docenti provenienti da diverse latitudini del globo. Obiettivo delle due settimane era quello di generare dibattiti e discussioni a partire proprio da un’indagine che ruotasse attorno agli sguardi che la logistica è in grado di produrre.

Quattro i filoni principali affrontati nelle presentazioni e in cui sono state suddivise le due settimane: il primo mirava a inquadrare e valorizzare proprio la produttività analitica di uno sguardo logistico; il secondo si concentrava su quella che si può definire la “logistica delle migrazioni”; il terzo sviluppava un’analisi attorno alla centralità della digitalizzazione sia per ciò che riguarda la logistica, sia nel campo delle migrazioni stesse; il quarto, infine, si interrogava sulle “pratiche del comune” a partire da alcuni casi di studio specifici. Senza la pretesa di fornire una sintesi dettagliata di tutti gli interventi, ci concentreremo su alcuni di essi particolarmente significativi cercando di restituire una visione d’insieme efficace della conferenza.

La relazione introduttiva è stata affidata ai due referenti organizzativi della Summer School, Manuela Bojadžijev e Sandro Mezzadra. Intitolata “The potential of the logistical gaze in respect to migration”, la loro lezione mirava sostanzialmente a inquadrare le linee generali dell’intero ciclo di incontri. Mezzadra, dopo aver sottolineato come anche questo appuntamento berlinese affondasse le sue radici nella crisi che ha colpito in particolare l’Europa a partire dal 2009/2010, si è concentrato sul concetto di “mobilità”, evidenziandone il ruolo “costitutivo” e tratteggiando la sintesi che essa rappresenta tra il campo delle migrazioni e quello della logistica. Utilizzare un “logistical gaze” per leggere i processi di mobilità umana – ha dunque sostenuto Mezzadra –, permette di collegare in modo molto intimo la lettura sulle migrazioni con l’analisi del capitalismo. La logistica oggi, infatti, è diventata un punto d’accesso privilegiato per la critica al capitalismo contemporaneo, e assumerla come metro e volano nell’analisi permette di evidenziare esplicitamente due cose. In primo luogo, come le migrazioni siano interconnesse ai cambiamenti dei “nuovi spazi” che puntellano il tempo presente (in parte prodotti anche dalla logistica); in secondo luogo, richiama l’attenzione su come le stesse migrazioni producano la loro logistica e le loro infrastrutture reali e digitali.

Manuela Bojadžijev ha enfatizzato ancor più esplicitamente l’utilità analitica della logistica nell’interpretazione del fenomeno migratorio, mostrando come anche quest’ultimo sia soggetto a vere e proprie pratiche di “logistificazione”. In particolare, Bojadžijev ha richiamato l’attenzione su uno slogan tipico della logistica quale quello del «just in time, to the point», e ha mostrato come esattamente questo stesso principio si applichi talvolta ai migranti. Avvalendosi di un frammento tratto dal docufilm intitolato “A maid for each”, del regista libanese Maher Abi Samra, ha mostrato il funzionamento di alcune agenzie che si occupano di “gestire” i flussi migratori. Nello spezzone proiettato, l’agente (broker) di una compagnia di Beirut spiega in maniera del tutto schematica, naturale, e con la dialettica svelta di chi conosce bene la professione come funziona il suo lavoro. Si occupa di far arrivare in Libano ragazze provenienti dallo Sri Lanka, dall’Etiopia, dalle Filippine o dal Sudan per ricoprire mansioni lavorative specifiche. Un flusso più o meno intenso, a seconda delle esigenze del momento. Questa realtà evidentemente non è descritta da Bojadžijev con i tratti del paradigma. Epperò evidenzia una delle connessioni del fenomeno migratorio con la logistica, giustificando e valorizzando un simile approccio.

In chiusura, Mezzadra è tornato su un altro nodo cruciale che logistica e migrazioni mettono costantemente in discussione, vale a dire quello dei confini. Evidenziando come per la logistica sia determinante preservare la mobilità superando gli ostacoli rappresentati dai confini, egli ha introdotto il concetto di «logistical fantasy»: un mondo liscio dove i flussi di merci possano scorrere senza alcuna soluzione di continuità, in un’idea stridente e paradossale con la realtà di tutti i giorni, dove il tema di barriere o muri per interrompere le dinamiche migratorie assume una centralità sempre crescente.

La seconda parte della giornata ha visto la presentazione del gruppo di ricerca dell’Università di Bologna, i cui componenti hanno proposto un intervento intitolato “Seeing through logistics: transformation of migrations, borders, spaces, production and labour”. Essi hanno mostrato l’efficacia di utilizzare la logistica come lente attraverso cui interpretare il presente globale. Già nella Summer School del 2013 il gruppo bolognese aveva indagato il mondo della logistica. A partire dalle lotte occorse nella “valle del Po” fin dal 2011, essi avevano sviluppato un’analisi più ampia che sottolineava come uno “sguardo logistico” fosse particolarmente utile ad investigare un tempo presente segnato dal «supply chain capitalism» (A. Tsing). In questa edizione della Summer School berlinese, essi hanno invece mostrato come quello stesso sguardo abbia la capacità di posizionarsi in ambiti disciplinari anche molto diversi, senza tuttavia perdere l’originalità descrittiva e mantenendo intatta la sua duttilità ermeneutica. Dalla storia alle scienze politiche, dalla sociologia alla filosofia passando attraverso l’antropologia, i ricercatori italiani hanno applicato la chiave di lettura logistica a cinque differenti tematiche: analisi del processo di integrazione Europea letto in primis come la nascita di un “nuovo spazio logistico”; sviluppo della città dalla forma compatta alla forma diffusa: la città globale come città logistica; descrizione di come le compagnie logistiche adattino e trasformino il contesto urbano e sociale nel quale operano; parallelismo (finanche semantico) tra le forme di gestione della mobilità delle merci e dei soggetti migranti; infine, come i “soggetti della mobilità” siano spesso la forza lavoro che la stessa logistica tende a ricercare e utilizzare.

Il secondo giorno, Giorgio Grappi dell’Università di Bologna e Brett Neilson della Western Sydney University hanno tenuto un intervento dal titolo “Logistics between political order and subjectivity”. Prendendo le mosse dalla descrizione del progetto che li vede coinvolti e da cui è sorta la piattaforma web www.logisticalworlds.org, essi hanno provato a delineare il nuovo apparato concettuale che sorge dalla logistica. Spesso rappresentata come una «black box» che necessita di essere spacchettata, la logistica è foriera di «paradossi» (G. Grappi) e offre «differenti punti d’accesso» (B. Neilson) politici e teorici per indagare il capitalismo contemporaneo e i nuovi spazi della globalizzazione. Per questo motivo, i due studiosi ritengono particolarmente produttivo il suo utilizzo anche nell’analisi delle migrazioni contemporanee. In ultima analisi, essi hanno mostrato come la logistica sia una «produttrice di spazio» (H. Lefebvre) da cui deriva un nuovo ordine politico fatto di «zone» inedite (K. Easterling), che tuttavia non sono certo esenti da tensioni e conflittualità.

Ad aprire la terza giornata e il secondo asse tematico più specificamente concentrato sulle migrazioni, è stato Éric Fassen dell’Università di Parigi 8 con una lezione intitolata “The road not taken: neoliberalism and xenophobia”. Fassen si è interrogato sul rapporto che intercorre tra l’affermazione del neoliberismo e la parallela crescita di sentimenti di xenofobia avvenuta negli ultimi anni specie negli Stati europei. Identificando un punto di svolta nei referendum di Francia e Olanda del 2005 dove venne bocciata la proposta di “Trattato costituzionale della Unione Europea”, egli ha mostrato come sentimenti xenofobi non siano soltanto un effetto collaterale del neoliberismo, quanto piuttosto una sua componente importante veicolata da una precisa volontà politica. Nel dibattito che ha seguito l’intervento di Fassen sono state poste sul tavolo alcune criticità nell’approccio dello studioso francese (quali, ad esempio, l’utilizzo del termine xenofobia a cui il pubblico avrebbe preferito la categoria di «razzismo», seguendo la differenza concettuale proposta da Étienne Balibar), ma è stata allo stesso tempo apprezzata la panoramica ad ampio spettro sulle politiche migratorie adottate dagli Stati europei negli ultimi anni (in particolare Francia, Germania, Spagna, Grecia e Inghilterra), che lo studioso ha fornito in modo puntuale e dettagliato.

Gli interventi d’apertura della quarta giornata di lavoro, offerti dal gruppo di ricerca berlinese del BIM, hanno preso le mosse dalla cosiddetta “estate delle migrazioni” del 2015. Articolando l’analisi a partire dalla “rotta balcanica”, essi hanno anzitutto mostrato come in quel frangente ci sia stata una vera e propria crisi del regime di «Schengenland» (W. Walters). Gli hotspot, descritti come parte dei confini esterni dell’UE (allo stesso modo ne aveva parlato anche Martina Tazzioli il giorno precedente, introducendo il concetto di «contrologistica»), hanno cambiato profondamente la loro funzione, in particolare dopo il criticato accordo sui migranti con la Turchia del marzo 2016. Da quel momento essi sono divenuti dei reali centri detentivi, nei quali i documenti per il “diritto d’asilo” o per il riconoscimento dello status di “rifugiato politico” sono stati sempre più difficili da ottenere, sostituiti piuttosto da un esplicito regime di ricollocazione forzata nello Stato turco. Un altro intervento dello stesso gruppo di ricerca ha invece sottolineato la centralità dei supporti digitali come gli smartphone nella mobilità dei migranti. Descritti come un «sistema di autorganizzazione», i telefoni di ultima generazione hanno assunto un’importanza crescente permettendo la condivisione di coordinate gps, di rimanere in contatto con la famiglia d’origine, di acquisire altre informazioni utili sulle modalità di viaggio o di approccio alla burocrazia europea ecc. In altri termini, quest’ultimo intervento si è proposto di presentare la “Digital Migrant Logistics”, la cui importanza è enfaticamente sintetizzata dalla frase estratta da un’intervista a un rifugiato siriano: «Without it, you will die!».

La seconda settimana della Summer School ha visto articolare degli interventi attorno alla digitalizzazione e alle pratiche del comune. Ad aprire la settimana tre interventi racchiusi nel titolo “Algorithmic governance and logistical labour”. Nel primo, Sabrina Apicella dell’Università di Lüneburg ha parlato di “Digital taylorism and Amazon”, presentando parte del suo lavoro di ricerca all’interno dei magazzini Amazon di Lipsia, dove sta indagando il sorgere (o meno) di una nuova “coscienza di classe” tra i facchini. Nel secondo, Moritz Altenried della Goldsmiths University di Londra, ha evidenziato come non tutto il lavoro digitale sia creativo e comunicativo. Al contrario, in quelle che lui ha definito le «digital factories» spesso le mansioni dei lavoratori sono «noiose e ripetitive». Esempio paradigmatico in questo senso è dato dai “gold farmers”, lavoratori impiegati nei giochi online che si occupano di accumulare punteggio da “rivendere” agli utenti in cerca di sviluppo facile dei loro avatar digitali. Infine, Armin Beverungen ha parlato di «platform cooperativism» (T. Scholz) e di «alghoritmic governance» (T. O’Really) mostrando come le tecnologie digitali siano coinvolte nella riconfigurazione dei processi decisionali e organizzativi di controllo politico.

Nel pomeriggio del 28 settembre è stato il turno di Laura Roth, accademica e attivista che fa parte della commissione internazionale di Barcelona en Comù, la piattaforma politica che ha espresso Ada Colau quale sindaca della città catalana. Roth ha tenuto un workshop dal titolo “Rebel cities, cities of refugee. The experience of Barcelona”. Descrivendo l’esperienza politica barcellonese come una delle forme attraverso cui è possibile istituzionalizzare la “politica dal basso”, Roth ha voluto mostrare come il lavoro nelle città possa essere veicolo attraverso cui condizionare le politiche nazionali ed europee. Anche Giuseppe Caccia, ricercatore presso la fondazione Rosa Luxemburg di Berlino che ha affiancato Roth nell’esposizione, ha voluto evidenziare come da un lato le città sono certamente il nodo di produzione e riproduzione dove si concretizza l’attuale «regime di accumulazione» (G. Arrighi). Dall’altro lato però, ha sostenuto Caccia, le città possono allo stesso tempo rappresentare i luoghi del sorgere di nuove forme di collaborazione e resistenza, proprio come un tempo faceva la fabbrica fordista.

Ad aprire il penultimo giorno di dibattiti e l’ultimo asse tematico concentrato sui “commons” sono stati Bue Rübner Hansen (post-doc tra Aarhus e Barcellona) e Manuela Zechner (post-doc al BIM), con una esposizione chiamata “Care and strategies of social reproduction across movements and institutions: some tools and questions”. Nella loro relazione i due ricercatori hanno formulato alcune ipotesi – proseguendo sulla stessa linea tracciata da Laura Roth il giorno precedente – sulla relazione che intercorre tra i movimenti sociali e le istituzioni politiche. Entrambi coinvolti direttamente in alcuni gruppi di lavoro attorno a Barcelona en Comù, essi hanno in un secondo momento inserito quella stessa esperienza in un diagramma cartesiano rivisitato che, pur lasciando alcuni dubbi alla platea di ascoltatori, ha mostrato una adattabilità non scontata ad esperienze nate in altri contesti geografici e storici (per approfondire, www.radicalcollectivecare.blogspot.com).

Nella giornata conclusiva, infine, Francesco Salvini e Marta Pérez hanno costruito due relazioni differenti che dialogavano tra loro entro i termini dell’“Ecologies of care: reimagining welfare through crisis in Thessaloniki, Trieste and Madrid”. Nelle loro ricerche, basate su studi di campo affrontato nelle tre diverse città, essi hanno mostrato alcune modalità alternative di welfare sanitario attive nei tre diversi contesti. Sostanzialmente, a Salonicco, Trieste e Madrid sono sorte delle prassi di assistenza sanitaria costruite su una sorta di reciprocità delle pratiche, in cui si “mischia” operatore e malato, e dove ognuno offre la sua esperienza «deindividualizzando le pratiche attuate». Insomma, descrivendo queste forme di welfare «dinamico e democratico», essi hanno mostrato una nuova modalità di pensare l’assistenza e la cura attraverso la crisi, che può assumere tratti emancipatori soprattutto in quell’area geografica dell’“Europa del Sud” che ha subito fortemente le conseguenze tragiche della crisi economica globale.

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