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Le città come sistemi logistici

La città è un fatto storico, e sono esistite differenti generazioni, strategie e tipologie di città. Se la città che ci siamo lasciati alle spalle è la città industriale, suddivisa funzionalmente in quartieri-fabbrica, quartieri dormitorio, luoghi del tempo libero ecc… quello che oggi viene definendosi è un tessuto urbano sempre più “logistificato”, fluido, malleabile e intrecciato, le cui ritmiche vengono definite dall’inscrizione di molteplici infrastrutture (siano esse virtuali o “materiali”) per i flussi globali (di merci o capitali, di turisti o di forme produttive sempre più sganciate dal “territorio”).

Stiamo attraversando un momento storico per molti versi paradossale e contraddittorio, dove ad esempio al forsennato aumento delle interconnessioni planetarie fa da compendio l’incessante moltiplicazione di confini. Per provare a comprendere in luce critica le dinamiche che stanno definendo questa fase di transizione è necessario proporre nuove angolature e prospettive analitiche. Quello che in maniera sintetica prova a fare questo scritto è una lettura degli attuali processi di globalizzazione “on the ground”, adottando la città e la logistica quali lenti per indagare un progetto di trasformazione in atto da alcuni decenni ormai, ma che sta passando per lo più inosservato. Strano destino questo, quello per il quale al centro della riflessione sono per lo più stati inquadrati i processi di produzione e di consumo, ma raramente quelli della circolazione – anello tuttavia strategico e decisivo del sistema capitalistico.

E’ come se i flussi di merci si muovessero attraverso infrastrutture “invisibili”, portando direttamente nelle abitazioni private ogni tipo di prodotto – oggi più che mai grazie ad aziende come Amazon e alle piattaforme digitali che si stanno espandendo in modo rapidissimo sulla nuova frontiera che da internet (e-commerce) si manifesta con la velocità di un click alle nostre porte grazie appunto a un continuo aumento e potenziamento dei sistemi logistici. E’ infatti rivestito di una sorta di “magia” questo processo che conduce a possibilità inedite di distribuzione e consumo delle merci. Raramente ci si chiede come queste arrivino concretamente nelle abitazioni. Eppure è piuttosto semplice ricostruire queste rotte, che sono fatte di tragitti globali, flussi e nodi del trasporto, grandi e piccole infrastrutture, e soprattutto da una forza lavoro globale che concretamente le merci le sposta, caricandole e scaricandole dai container, mettendole sui nastri a ciclo continuo nei magazzini di Amazon, organizzando e smistando i prodotti, guidando i più svariati veicoli, fino alla recente emersione dei cosiddetti rider, che usano la bici per la consegna a domicilio.

Questa logica logistica sempre più diviene guida del sistema economico attuale, supplendo a quella che da anni si manifesta (anche) come crisi produttiva grazie a una forsennata ricerca di vendere sempre più merci sempre più velocemente. E ha un profondo impatto sull’organizzazione urbana. Se infatti ormai quasi trent’anni or sono Saskia Sassen portava alla luce la fortunata idea della “città globale” come trama interconnessa di centri finanziari e di servizi a scala planetaria (nel suo libro del 1991 l’autrice parlava in particolare di Tokyo, Londra e New York), oggi uno dei paradigmi emergenti per interpretare le forme attuali dell’urbano si sta muovendo verso la cosiddetta “urbanizzazione planetaria”, che indica il progressivo ricoprirsi della Terra di un tessuto urbano che connette infrastrutturalmente i grandi centri metropolitani con i siti di estrazione delle materie prime, le rotte di trasporto continentale e oceanico e il pulviscolo di urbanizzazione diffusa che, osservata di notte dai satelliti, fa brillare di luce artificiale sempre più aree della superficie terrestre. Questi densi insiemi luminosi sono il segno più evidente di una poderosa infrastrutturazione urbana pensata per fluidificare il trasporto merci all’insegna dell’intermodalità – parola magica del lessico logistico che indica la capacità di spostare il più velocemente possibile e sulle più diverse spazialità i prodotti. Il simbolo di ciò è il container, che oggi deve poter essere mosso da una parte all’altra del globo senza interruzioni venendo trasportato “just in time and to the point” su treni in ferrovie intercontinentali, navi cargo su rotte oceaniche, tir per infinite autostrade, aerei… Questa urbanizzazione planetaria rappresenta in altre parole un’immensa trama logistica, che interconnette l’umanità e i territori grazie a nuove e vecchie tecnologie (dai cavi per internet sui fondali degli oceani alle ferrovie), e ai sempre più rapidi e ampi spostamenti di donne e uomini, merci e capitali. Tali cartografie emergenti conducono addirittura a parlare di fine della geo-grafia in favore di una nuova connetto-grafia (Parag Khanna), in un mondo laddove sarebbe definitivamente destinata a svanire l’importanza dei desueti confini statuali in favore di un nuovo sistema basato appunto sulle connessioni che in tendenza sempre più legheranno le megalopoli globali, nuove città-Stato, all’interno di quella che le Nazioni Unite definiscono, a partire dal 2007, come la nuova “epoca urbana”. Quella della “fine dello Stato” è idea non certo nuova e piuttosto problematica – soprattutto in un momento storico nel quale i confini si moltiplicano. Ma non è interesse di questo testo addentrarsi in questo dibattito. Torniamo alle città, facendo una premessa.

Sebbene il capitalismo si caratterizzi sin dalle origini per la sua estensione globale, è pur vero che fino a pochi decenni fa la maggior parte della popolazione consumava merci che venivano prodotte, distribuite e consumate per lo più entro aree di alcune decine o al massimo qualche centinaio di chilometri quadrati (fatta eccezione per le materie prime e per alcune tipologie di merci per lo più “di lusso” che arrivavano dai porti, “luoghi del globale” per eccellenza). Oggi i mercati e i negozi di prodotti “a chilometro zero” sono invece un’eccezione rispetto alla maggior parte di merci “made in China, India, Bangladesh ecc…” trasportate globalmente da alcune potenti multinazionali come la Maersk, e acquistate sempre più nei grandi supermercati e nei luoghi virtuali.

La città è un fatto storico, e sono esistite differenti generazioni, strategie e tipologie di città. Se la città che ci siamo lasciati alle spalle è la città industriale, suddivisa funzionalmente in quartieri-fabbrica, quartieri dormitorio, luoghi del tempo libero ecc… quello che oggi viene definendosi è un tessuto urbano sempre più “logistificato”, fluido, malleabile e intrecciato, le cui ritmiche vengono definite dall’inscrizione di molteplici infrastrutture (siano esse virtuali o “materiali”) per i flussi globali (di merci o capitali, di turisti o di forme produttive sempre più sganciate dal “territorio”). Una logica complessiva che organizza i territori oggi, a qualsiasi scala li si analizzi. Anzi, per meglio dire, se si guarda “con gli occhi della logistica” la dicotomia locale/globale perde molta della sua efficacia euristica, spingendo verso la ricerca di nuove immaginazioni spaziali oltre la gerarchia delle scale geografiche per comprendere le dinamiche di trasformazione in atto. E in questo senso la logistica risulta essere una lente analitica particolarmente produttiva per comprendere la “costituzione materiale” dei processi di globalizzazione.

Ora, se la “città globale” si è oggi diffusa e articolata in maniera inedita e non si può più limitarle ai soli punti di concentrazione del potere finanziario – in favore di una più complessa dinamica di urbanizzazione planetaria, comprendere come ogni città stia oggi diventando un grande hub per la circolazione e il consumo delle merci è un campo di ricerca piuttosto inedito e che val la pena percorrere. Se già da tre/quattro decenni i grandi supermercati e i centri logistici come gli interporti hanno contribuito in maniera decisiva allo sfrangiamento dei precedenti confini urbani, estendendone l’orizzonte ben oltre gli storici perimetri e accompagnando il fenomeno di estensione territoriale che negli studi urbani statunitensi prende il nome di sprawl e di creazione di suburb, oggi a questa logica estensiva si accompagna un movimento intensivo. L’intermodalità non riguarda infatti unicamente le grandi infrastrutture e i nodi logistici, ma si sta imponendo anche nei luoghi urbani “centrali”, che devono essere in grado di attrarre e gestire al meglio i flussi. Non a caso anche gli architetti stanno iniziando a discutere di come “apprendere dalla logistica” (si veda in proposito il libro “Learning from Logistics”) per disegnare edifici della fluidità.

Ma da dove origina questa matrice di razionalità logistica? E’ possibile accennare alcune tracce genealogiche in proposito, per mostrare come la logistica contemporanea sia intrecciata a doppio filo con l’urbano. Se infatti gli studi storici sulla logistica ne tracciano la genesi moderna nella tratta oceanica degli schiavi e nelle modificazioni necessarie a rifornire gli eserciti per le campagne militari dei primi conflitti inter-statuali, a partire dalla seconda metà dell’Ottocento le tecniche e le conoscenze per la mobilità sviluppate su scale oceaniche e statual/continentali iniziano a essere sperimentate nelle città. Il caso iconico in merito sono i grandi lavori di trasformazione di Parigi impressi dal Prefetto della Senna Von Haussmann. Dopo il 1848 la capitale francese viene infatti radicalmente ricostruita, distruggendo la città antica e dando vita a un impianto metropolitano che funzionerà da modello per moltissime altre città al mondo, dall’Europa all’America Latina. L‘imperativo che guida Haussmann è quello di abbattere l’intricato groviglio di strade ed edifici ammassati dei quartieri popolari che aveva fatto da fucina per le insurrezioni, rendendo Parigi un moderno impianto fatto di gran boulevards pensati per la circolazione di merci, eserciti, mezzi e persone senza nessun intoppo. Una logica logistica appunto, che trova un corrispettivo nel nuovo piano urbanistico che più o meno negli stessi anni viene approvato a Barcellona e disegnato da Idelfonso Cerdà, altro modello tipologico successivamente replicato in moltissimi altri contesti che organizza la struttura urbana a partire dalla logica della circolazione e con la possibilità di una espansione indefinita. Ma non è solo quella che inizia ad essere una produzione industriale dell’urbano a svilupparsi per lineamenti logistici. Si può infatti sostenere che sia proprio una logica logistica di sincronizzazione del tempo e di organizzazione dello spazio quella che porta alla strutturazione del predecessore della catena di montaggio che caratterizzerà per molti decenni i sistemi produttivi del Novecento. Stiamo parlando dei macelli, che a Chicago a cavallo del XIX e XX secolo trovano una forma industrializzata e a catena di montaggio appunto. Anche Max Weber li osserverò con stupore nel suo viaggio in America, notando assieme ad altri come Chicago fosse il più pazzesco esempio di “esplosione” di una metropoli. In pochissimi decenni infatti passa da piccolo villaggio a metropoli con milioni di abitanti, grazie alla sua interconnessione globale dovuta al sistema di trasporto su acqua che permette di spostarne i prodotti a grande velocità e ampio raggio, grazie alla fine della costruzione della ferrovia intercontinentale (avvenuta nello Utah nel 1869), e grazie all’afflusso di enormi masse di migranti soprattutto dall’Europa. Proprio a Chicago d’altra parte vengono costruiti i primi grattacieli della storia e si struttura la sociologia urbana.

E’ proprio “l’apertura” logistica a inaugurare quindi la metropoli moderna a differenti latitudini. La catena di montaggio fordista/taylorista e la grande fabbrica saranno il passaggio “successivo” che inaugura un nuovo sistema produttivo e una nuova struttura urbana. Ma è di nuovo la logistica a tracciare un passaggio ulteriore. Negli anni Sessanta e Settanta del Novecento infatti la grande fabbrica e la catena sono messe in crisi da una profonda insubordinazione della forza-lavoro, che gioca a suo favore la rigidità del sistema produttivo e la grande concentrazione di mano d’opera. La ristrutturazione che segue a questa processo viene definita oggi da molti autori come “logistics revolution”. Si tratta dello smantellamento della grande fabbrica che viene spalmata sul territorio e a scale sempre più ampie. Alla concentrazione dei vari reparti in un solo punto si sostituisce l’interconnessione logistica del processo produttivo in catene della produzione di valore che iniziano appunto ad estendersi sul territorio e a scala globale. Le città occidentali iniziano a trasformarsi di conseguenza, non solo per la de-industrializzazione che lascia ampie aree all’abbandono ma anche per la proliferazione di piccole aziende e magazzini, i nuovi interporti e le nuove reti viarie, che ne espandono indefinitamente il tessuto. Se a questo si aggiunge il passaggio nipponico del toyotismo, che si basa proprio sull’idea del “just in time” e di massimizzazione dei sistemi di distribuzione, eccoci di nuovo giunti all’attualità.

Ecco allora che i complessi panorami territoriali di oggi, rispetto ai quali sembrano mancare chiavi di lettura adeguate per comprenderne i meccanismi e le traiettorie di sviluppo, possono essere compresi proprio a partire dall’adozione di una prospettiva logistica, in termini sia genealogici che per una lettura della morfologia urbana attuale. Ciò che però è di particolare rilievo è riflettere sul continuo rischio che definisce uno dei più grandi incubi del sistema logistico, quello dei chocke points, i colli di bottiglia che possono formarsi ovunque e per i più svariati motivi (dalle carenze infrastrutturali a perturbazioni naturali, da scioperi a conflitti geopolitici), interrompendo il sogno della mobilità senza sosta dei flussi. La connettività senza interruzioni per il trasporto merci via terra, mare e aria – adeguando il territorio agli standard internazionali – ha infatti subito numerosi inceppi negli ultimi anni provenienti spesso da fattori soggettivi e conflittuali. Si pensi ad esempio: al significativo ciclo di scioperi che hanno contrassegnato il settore logistico a livello globale nell’ultimo decennio (si veda in proposito “Chocke Points. Logistics Workers Disrupting the Global Supply Chain” a cura di Jake Wilson e Immanuel Ness) e alla recente mobilitazione dei rider a livello europeo (); a lotte estremamente radicali e durature contro progetti logistici come un aeroporto e una linea ferroviaria ad alta velocità come quelle della ZAD in Francia e della TAV in Italia (si veda ad esempio Kristin Ross, “Zad and No Tav”, Verso Books); si pensi ancora a come il movimento Occupy abbia insistito molto negli USA sul blocco dei porti (in particolare a Oakland e Los Angeles) – ripreso nel blocco del porto durante il G20 di Amburgo nel 2017; e a come l’obiettivo di molte della acampadas nelle piazze del 2011-2013 fossero in fondo elementi anche di interruzione dei flussi metropolitani, occupando e bloccando importanti snodi del movimento urbano da piazza Tahrir al Cairo a Puerta del Sol a Madrid, passando per piazza Syntagma ad Atene e arrivando fino a piazza Taksim a Istanbul. Va inoltre considerato in questa prospettiva il conflitto agito dai migranti in numerose zone di frontiera, dal Messico/USA border al Mediterraneo, laddove la risposta dei governi si definisce sempre più all’interno di una logica e di un linguaggio tecnico ripreso direttamente dal lessico logistico per la gestione dei “flussi” migratori che devono essere governati attraverso una loro regolazione.

Ciò che questa serie di conflitti sembra far emergere è un complessivo campo di scontro che si articola soprattutto a partire dal terreno della circolazione e del “chi decide” sui ritmi e sulla definizione del tempo sociale. Non a caso una variegata costellazione di pensiero critico si sta confrontando con questi temi: si pensi a un autore come Joshua Clover (“Riot. Strike. Riot”) che invita a pensare nei termini delle circulation struggles; alle riflessioni sulla “contro-logistica” sviluppate ad esempio da James Barnes (“Logistics, Counter-Logistics, and the Communist Prospect”) o dalla piattaforma europea Social Strike; all’enfasi posta in “Il potere è logistico. Blocchiamo tutto!” (capitolo del libro “A nos amis”) dal Committe Invisible francese; alla grande attenzione per la logistica posta da pensatori appartenenti a eterogenee tradizioni teoriche che spaziano dall’operaismo al situazionismo all’anarchismo, fino ad arrivare anche al mondo accademico con innumerevoli contributi negli ultimi anni che hanno sottratto la logistica al dominio esclusivo delle discipline ingegneristiche e dei trasporti per farne oggetto delle scienze sociali e umanistiche.

E’ in questa direzione che si può allora inquadrare la logistica come matrice di produzione urbana e delle sue nuove spazialità come un processo sempre contestato e conteso, carattere che d’altra parte contraddistingue la città sin dalle sue origini. E’ quindi a questo doppio e ambivalente volto della logistica che si può oggi guardare per indagare le mutazioni urbane, al suo sviluppo trans-scalare per la circolazione e il consumo di merci che fa divenire hub le città, e alla serie di conflitti che attorno a questi processi si generano.


Pubblicato sulla Newsletter dell’Osservatorio sulla città globale, luglio 2018, pp. 30-33.

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