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Tutto il potere alle rotonde! Uno “sguardo logistico” sul movimento dei gilets jaunes

È proprio la centralità che sta avendo la pratica del blocco ad invitare ad adottare uno “sguardo logistico” – attento alla circolazione, alla materialità dei flussi, alle ritmiche dei movimenti –  per comprenderne le dinamiche. Ma è importante sottolineare che seppur il blocco sia una pratica che caratterizza molti movimenti del nuovo millennio, a partire dai piqueteros argentini del 2001, i blocchi delle rotonde sono anche stati trasformati in “piazze” dai GJ, che hanno mutato le rotonde in snodi organizzativi producendo una contro-cartografia delle lotte. Nodi logistici e nodi organizzativi. Le rotonde si sono trasformate anche in luoghi di costruzione di comunità, di espressione del desiderio di costruire comunità, che hanno permesso – in un secondo tempo – il processo organizzativo in corso (molti blocchi sono ora assemblee permanenti) e la sperimentazione di inusitate forme politiche. Il blocco dunque come un momento di negazione, di interruzione, che però determina anche una forma-acampada molecolare e generativa.

Tra il 2011 e il 2013 si è assistito all’emersione del primo movimento globale all’interno della crisi capitalistica inaugurata dallo scoppio della bolla dei mutui sub-prime negli Stati Uniti nel 2007-2008. Uno specifico effetto-contagio urbano aveva interconnesso una sequenza di mobilitazioni dislocatesi in numerose metropoli mondiali. Dalla casbah di Tunisi a piazza Tahrir al Cairo, da piazza Syntagma ad Atene a Puerta del Sol a Madrid, da piazza Taksim a Istanbul a Occupy Wall Street a New York, e in tantissimi altri contesti del Maghreb e del Mashreq, fino a Hong Kong, una eterogenea galassia di contesti e soggettività sociali aveva fatto irruzione sulla scena politica organizzandosi attraverso un archivio molteplice di pratiche (dai riot londinesi allo sciopero del porto di Los Angeles), in cui tuttavia era emersa come dimensione inedita e qualificante l’occupazione permanente delle piazze. La concentrazione di forza sociale in questi punti emblematici delle metropoli mostrava da un lato una necessità di ri-connessione e di riconoscersi come corpo collettivo dopo decenni di individualizzazione e atomizzazione neoliberale. Dall’altro proponeva una appropriazione simbolica e concreta dello spazio classico della politica, la piazza appunto[1]. Quel ciclo di mobilitazione si è “concluso” col movimento brasiliano del 2013 e le sue giornate insurrezionali di giugno. Quella mobilitazione non aveva avuto piazze centrali da conquistare, ma aveva invaso le metropoli con milioni di persone a partire da una rivendicazione contro l’aumento del costo del trasporto pubblico, ossia sulla possibilità di mobilità e accesso per tutt agli spazi urbani.

A partire dal novembre 2018 si è aperta in Francia una forma dai tratti fortemente inediti di lotta, il movimento dei gilet gialli. Anch’esso è nato a partire dalla scintilla di un aumento dei costi del trasporto, in questo caso stiamo però parlando di una nuova tassa sul diesel, ossia del carburante che consente la mobilità di milioni di persone all’interno degli scenari post-urbani che caratterizzano i panorami della Francia contemporanea al di fuori dei centri di gravitazione metropolitana. Questo movimento presenta dunque caratteri peculiari e largamente imprevisti. Seguire le geografie della mobilitazione, le pratiche di lotta, le ritmiche, e la sua composizione sociale, è un’esplorazione in ambienti costruiti sostanzialmente a partire dagli anni Ottanta dello scorso secolo e che si prendono per la prima volta il palcoscenico politico. Inoltre, una delle domande che i GJ lasciano sul campo è se attraverso la loro analisi sia possibile cogliere le forme a venire dei movimenti e della conflittualità sociale, e se essi possano indicare una anticipazione e un incipit di una nuova traiettoria di risposta sociale globale alla crisi. Tutte questioni evidentemente molto ampie e di largo raggio, sulle quali non ci si potrà chiaramente soffermare in questo scritto. Quello che ci pare possibile poter qui elaborare come contributo a una discussione collettiva è un taglio di lettura sui GJ attraverso una “lente logistica”[2], che ci pare possa portare in luce una serie di fattori di valenza più generale assieme alle transizioni e alle discontinuità rispetto ai movimenti precedenti.

Partiamo da un dato. Se il 2011-2013 aveva avuto la pratica della concentrazione nelle classiche centralità urbane il proprio tratto caratteristico, e la piazza come simbolo, i GJ hanno invece avuto una dinamica estremamente differente. Il movimento si è infatti definito attraverso l’articolazione tra una diffusione territoriale molto ampia e molecolare della pratica del blocco e dell’occupazione delle rotonde stradale con momenti molari e intensivi di assalto alla metropoli. Da un lato l’inceppamento della circolazione e l’interruzione dello scorrere del tempo capitalistico, dall’altro l’imposizione di una rigidità temporale che per mesi e mesi si è definita nella mobilitazione di tutti i sabati, gli Atti dei GJ. Questa dinamica estensivo-intensiva si basa sul blocco dei flussi, siano essi le catene del valore della circolazione delle merci sul territorio nazionale che dei flussi simbolici che emanano dal loro consumo spettacolare nei centri dello shopping del sabato pomeriggio. Siamo di fronte a un cambio di paradigma rispetto ai movimenti precedenti quindi non solo nella composizione sociale, politica, territoriale e nelle rivendicazioni (fine della settorialità sindacale e richiesta di salario sociale, messa in luce da rivendicazioni su imposte, servizi pubblici, pensioni, disoccupazione, formazioni, alloggi, sanità, ecc.) ma anche nelle pratiche messe in campo. La pratica del blocco è emersa infatti come riflesso spontaneo e “naturale” del movimento, che tra l’altro alla doppia temporalità dei blocchi con gli Atti del sabato (blocco di fatto dei flussi economici nei quartieri più ricchi attraverso l’occupazione “materiale” dello spazio attraversato dai flussi) e ai blocchi delle rotonde durante la settimana ha aggiunto i blocchi nel settore logistico (Amazon, Geodis, Rungis…) identificato come strategico.

Ciò che ci pare sia possibile ipotizzare a partire da questa analisi sono due elementi tra loro interconnessi, e sui quali ci soffermeremo. In primo luogo, la mobilitazione dei GJ è sintomo ed espressione di un complessivo movimento di slittamento verso un paradigma della mobilità come cifra complessiva dell’attuale modo di produzione[3]. Un paradigma che è l’esito complesso di una lotta globale tra la mobilità autonoma della forza lavoro e il capitale sub specie logistica che ne stabilisce l’attuale segno politico. In secondo luogo, la simmetrica e intimamente connessa configurazione territoriale che ad esso si accompagna si propone come spazialità inattesa di nuovi conflitti, in cui le rotonde sono state il segno architettonico contro-agito e reso l’emblema dei GJ.

Il processo di rivolta non è emerso né a Parigi né in altre grandi città, e neppure dalle periferie o dai suburb che le circondando. La scintilla e una grossa parte della composizione sociale dei GJ è piuttosto una popolazione che abita gli spazi urbani automobilizzati[4], gli ex-urbi, le grandi zone di impiego, i distretti dello shopping e dei mall, collocate al margine e tra le grandi centralità urbane[5]. Una forma di azione politica suburbana, ex-urbana, o periurbana che dir si voglia, che si configura come novità assoluta per questi luoghi prodotti dalla grande neoliberalizzazione del territorio che ha caratterizzato Europa e Stati Uniti negli ultimi decenni. Questa dinamica spaziale della mobilitazione impone un ripensamento delle categorie geografico-politiche usuali. La sequenza tra l’occupazione e la mobilitazione delle rotonde sparse nel territorio, il blocco di importanti infrastrutture (tunnel, raffinerie, porti, autostrade, caselli) e i sabati nelle città impone una cartografia insorgente che induce a gettare via l’idea stessa di “diritto alla città” proprio nel paese in cui tale lemma veniva coniato nel 1967 da Henri Lefebvre[6]. L’ambiente di gemmazione dei gilet gialli è piuttosto il frutto dell’esplosione delle città di cui Lefebvre vedeva lucidamente il dispiegarsi. È l’esito di processi di urbanizzazione che hanno fatto saltare la dicotomia città/campagna[7], ridisegnato di continuo i confini, esteso costruzioni e infrastrutture su tutto il territorio in una panoplia a tratti caotica di cui uno dei vettori decisivi è stata la progressiva industrializzazione della logistica a partire dagli anni Settanta dello scorso secolo[8]. Il massiccio innesto di capitali in macchinari, infrastrutture e tecnologie per la circolazione delle merci entro un “settore” che prima era per lo più ancora mercantile, nonché l’applicazione di una logica logistica all’interno della produzione che ha consentito di scomporre lungo tutto il territorio le grandi fabbriche entro catene di montaggio ora disassemblate, hanno avuto come riflesso la colonizzazione pervasiva del territorio. Se a ciò si aggiunge l’esplosione delle metropoli lungo le catene globali del valore e il forte impatto dei processi di globalizzazione, si capisce come siamo transitati all’interno di un panorama che non solo impone di abbandonare la categoria di “città”, ma probabilmente pure quella di “urbano”. Ma qui si aprirebbe un altro discorso. Soffermiamoci però sul fatto che il progressivo slittamento verso un paradigma della mobilità, in cui materie prime, merci e forza-lavoro circuitano sempre più rapidamente all’interno della sistematizzazione di uno spettacolo integrato delle merci, ha generato un movimento come quello dei GJ proprio a partire dai suoi territori liminali.

È proprio la centralità che sta avendo la pratica del blocco ad invitare ad adottare uno “sguardo logistico” – attento alla circolazione, alla materialità dei flussi, alle ritmiche dei movimenti –  per comprenderne le dinamiche. Ma è importante sottolineare che seppur il blocco sia una pratica che caratterizza molti movimenti del nuovo millennio, a partire dai piqueteros argentini del 2001, i blocchi delle rotonde sono anche stati trasformati in “piazze” dai GJ, che hanno mutato le rotonde in snodi organizzativi producendo una contro-cartografia delle lotte. Nodi logistici e nodi organizzativi. Le rotonde si sono trasformate anche in luoghi di costruzione di comunità, di espressione del desiderio di costruire comunità, che hanno permesso – in un secondo tempo – il processo organizzativo in corso (molti blocchi sono ora assemblee permanenti) e la sperimentazione di inusitate forme politiche. Il blocco dunque come un momento di negazione, di interruzione, che però determina anche una forma-acampada molecolare e generativa.

Nel selezionare le rotonde come snodi strategici, le figure sociali post-urbane che hanno nell’automobile un habitat di vita quotidiano e prolungato che hanno originato i GJ, hanno anche portato in luce un altro scarto. L’estrema diffusione territoriale della rotonda è infatti emblematica di una nuova fase della circolazione secondo la logica del flusso continuo, che si contrappone al semaforo come tipico regolatore dei flussi urbani. Il semaforo, si potrebbe dire echeggiando Foucault[9], è un’istituzione disciplinare, mentre la rotonda è un’istituzione circolante. La rotonda consente l’estensione della circolazione su spazi sempre più ampi, mentre il semaforo in fondo ha “senso” solo nei centri urbani. La rotonda rappresenta una sorta di “introiezione della disciplina” che invece il semaforo imprime dall’esterno.

La rotonda è dunque un modello tipico di matrice logistica, presuppone l’intermodalità e l’appianamento di tutte le vie che ivi si congiungono, e non a caso è stata inserita con forza negli standard dettati dall’Unione Europea per ristrutturare il territorio dei paesi membri, confermandone la natura di progetto politico-logistico[10]. I primi semafori vennero derivati da quelli ferroviari sul finire del XIX secolo a Londra per regolare flussi di traffico potenzialmente in conflitto fra loro, mentre i primi semafori a illuminazione elettrica sono introdotti a partire dal 1914 negli Stati Uniti. Inizialmente comandati manualmente, diverranno in fretta controllati automaticamente e quindi esportati in Europa, dove vennero installati per la prima volta nel 1922, a Parigi. La specifica temporizzazione delle fasi dei flussi con stop e via libera per evitare il formarsi di code sta però, dopo alcuni decenni di trionfo incontrastato, venendo progressivamente rimpiazzata da rotatorie dove possibile (richiedono molto più spazio dei semafori, e dunque nelle città è più complicato introdurle), o comunque pilotata con sensori per la gestione del traffico in tempo reale tramite appositi software. La rotatoria sostituisce alla grammatica puntuale del semaforo il segno sferico negli incroci, e nasce dall’urbanista francese Eugène Hénard dopo la sistemazione del rond-point dell’Etoile di Parigi. La sua diffusione massiccia comincia a prendere piede negli anni sessanta, nella ingegnerizzazione britannica delle isole spartitraffico circolari. Nel 1966 il Regno Unito generalizza la norma della precedenza ai veicoli che stanno già impegnando la rotatoria, mentre nel 1983 si adegua anche la Francia. Da allora la rotatoria si diffonde rapidamente in tutta l’Europa occidentale. Nel confronto fra un incrocio con semaforo e la rotatoria con precedenza ai veicoli che la percorrono, la seconda oltre che costare di più e occupare più spazio va inquadrata anche nell’essere essenzialmente pensata per le macchine private, in quanto non è in esse possibile garantire corsie riservate ai mezzi pubblici e sono difficili da attraversare e penalizzanti per ciclisti e pedoni. I GJ hanno dunque potentemente sradicato questo segno spaziale, il cui blocco diffuso ha anche praticato un “contropotere [che] si presenta come capacità di destrutturare la compagine economica del paese. I gilets jaunes hanno finora attaccato soprattutto la circolazione delle merci. I sabati di lotta nel centro delle metropoli danneggiano il mercato. E poiché produzione, circolazione, riproduzione sono ormai divenute funzioni di un ciclo continuo, i danni determinati dall’attacco alla circolazione sono rilevanti per la valorizzazione del PIB”[11].

La logistica è uno dei vettori portanti, assieme alla finanza[12], che ha consentito il progressivo sfumare e farsi poroso dei confini che presidiavano la ripartizione dell’economia politica classica tra produzione, circolazione e consumo, rendendo la seconda categoria una logica in grado di interconnettere e accelerare l’intera rotazione dei cicli di capitale. In questa direzione si è iniziato negli ultimi anni a parlare di circulation struggles[13], proprio per indicare come nel nuovo millennio uno dei tratti distintivi delle lotte sia il loro definirsi direttamente “nel mercato” e non più nei classici siti della “produzione”. Il tradizionale cuore manifatturiero è stato eroso soprattutto grazie a un enorme aumento della produttività, ma a fare da contraltare sta la corposa crescita del settore dei trasporti, del magazzinaggio e di tutti gli altri aspetti connessi alla «rivoluzione logistica». A ciò va aggiunto l’aumento dei servizi necessari alla riproduzione sociale e al mantenimento dell’espandersi dell’infrastruttura materiale del capitale. L’enorme aumento delle ineguaglianze e dello sfruttamento è inoltre dovuto a una ripida accelerazione nell’intensificazione del lavoro nella produzione di beni e servizi, grazie ai sistemi di produzione flessibile e alla loro evoluzione nelle forme digitali e biometriche di controllo e misura del lavoro. Il sistema emergente delle supply chain just-in-time, sempre più guidato in forma digitale, è concentrato in «nodi» situati ai bordi delle grandi aree metropolitane, in quanto dipendono dalle grandi concentrazioni di lavoro sottopagato ivi collocate. Questi cluster logistici e le loro connessioni sono i vettori portanti delle aziende e delle industrie più importanti e rappresentano i punti deboli per il grosso potere di interruzione che in essi viene determinandosi[14]. In questa direzione è possibile sostenere che con la mobilitazione dei GJ trova una conferma la classica formula operaista del passaggio “dalla fabbrica alla metropoli”, dove però con “metropoli” non si intende un assetto urbanistico dato quanto un progressivo embricarsi tra territorialità e società. I GJ indicano dunque un terreno di contrattazione in quanto forza-lavoro che si gioca sul potere d’acquisto, sul consumo più che sul salario diretto. Ma un consumo non riducibile a singole merci, quanto a un complessivo “consumo di metropoli” inteso come possibilità di accesso a stili di vita e immaginari. Siamo insomma pienamente dentro una sussunzione tendenzialmente totale della società al capitale, che non configura tuttavia un totalitarismo del capitale ma un nuovo terreno della lotta di classe che i GJ hanno iniziato a significare.

In questo senso, per concludere, ci pare che la peculiare forma di blocco che ha costituito l’ossatura del movimento metta in luce due cose distinte e legate tra di loro: 1) Il riconoscimento della produzione della ricchezza come sociale (e quindi anche l’intreccio di sfera produttiva e riproduttiva); 2) Il riconoscimento della centralità strategica (per le lotte) dei nodi e dei flussi che permettono la circolazione e la valorizzazione della ricchezza prodotta socialmente. L’appropriazione e il contro-uso delle rotonde nei nuovi contesti geo-sociali della Francia contemporanea può dunque essere interpretato politicamente come uno sciopero di tipo nuovo. Uno sciopero che assume la fine dei corpi intermedi come referenti sociali, che ribalta allo Stato il suo approccio, imponendo la mancanza di rappresentanza del movimento come impossibilità di un suo depotenziamento. Indica una contrattazione sociale di tipo nuovo, dove una parte di società diventa il proprio sindacato e impone con la forza il proprio punto di vista. L’organizzazione alternativa a quella della “politica” e della rappresentanza esistenti che stanno esprimendo i GJ non va dunque inquadrata in una opzione ideologica, ma in una sorta di codice inscritto nella matrice dei soggetti che abitano la territorialità di difficile definizione cui abbiamo provato ad alludere in questo scritto. Ciò chiaramente non risolve, anzi complessifica, il nodo sulle forme di organizzazione, che oltretutto deve essere pensato oggi non solo nel suo definirsi nei territori ma anche rispetto al carattere globale e “illimitato” della logistica che attraversa i territori ma non si “risolve” in essi. Ma, come dicevamo in apertura, la serie di appunti che abbiamo qui presentato è orientata al contribuire a una discussione necessariamente collettiva sui conflitti in atto o a venire negli anni Venti del nuovo millennio. Spesso immaginati a tinte fosche, ci pare invece che essi possano presentare potenzialità inesplorate per gli scenari del conflitto sociale che necessitano di essere però inquadrate attraverso nuovi significati e nuove prospettive di indagine.


[1] Si rimanda in proposito a N. Cuppini, Il rogo e il gelsomino. Il 2011-2013, la forma-riot e le circulation struggles, in A. Senaldi e X. Chiaramonte (a cura di), Violenza politica. Una ridefinizione del concetto oltre la depoliticizzazione, Ledizioni, Milano, 2018.

[2] Vedi http://www.intotheblackbox.com/manifesto/critical-logistics-a-manifesto/

[3] Cfr. C. Mattiucci e Into the Black Box, Territoires logistiques, lo Squaderno, no. 51, marzo 2019.

[4] Vedi M. Zinganel, Rhythms of Post-Urbanity: Road-Corridors, Nodes, and Networked Archipelagos,

[5] Stefan Kipfer, The Yellow Vests in France: A Few Snapshots: http://www.ijurr.org/the-urban-now/the-yellow-vests-in-france-a-few-snapshots/?fbclid=IwAR0YN98yKJGvjktwQlCtRRMwEPeRcrPSD0LZk1KwKEHfpsfBY4aavWDUIes

[6] H. Lefebvre, Le droit a la ville

[7] Pier Vittorio Aureli, Il ritorno della fabbrica.Appunti su territorio, architettura, operai e capitale: https://operavivamagazine.org/il-ritorno-della-fabbrica/

[8] 2017 Benvegnú C., Gaborieau D., “Produire le flux. L’entrepôt comme prolongement d’un monde industriel sous une forme logistique”, SavoirAgir, 38/1,

[9]

[10] Vedi M. Frapporti,

[11] Negri, Euronomade: http://www.euronomade.info/?p=11839

[12] Vedi S. Mezzadra e B. Neilson, The Politics of Operations, Duke University Press, 2019.

[13] J. Clover, Riot. Strike. Riot. The New Era of Uprisings, Verso, New York, 2016.

[14] Vedi K. Moody, On New Terrain: How Capital is Reshaping the Battleground of Class War, Haymarket Books, New York, 2018.

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