Interviste

Genealogie della logistica. Dialogo con Stefano Harney.

Genealogie della logistica. Strade che si intrecciano. Da uno sguardo profondamente storicizzato su fino al presente globale. Nel mezzo una serie di avvenimenti, fatti, persone, sensi. Rimbalzi dall’approccio eminentemente teorico al caso specifico e tangibile. Richiami ai classici e alle nuove generazioni di autori. In questa intervista si discute delle molteplici origini di un elemento chiave per l’interpretazione del capitalismo contemporaneo.

Docente alla Singapore Management University, i campi di ricerca di Stefano Harney sono molteplici. Professore di “management strategico”, egli in realtà si interessa assiduamente agli studi postcoloniali approfondendo tematiche che comprendono questioni associate a razza, genere e organizzazione sociale. Nel 2013 pubblica con Fred Moten un importante testo intitolato The Undercommons: Fugitive Planning and Black Study (Minor Compositions, 2013), che contiene una serie di capitoli in cui gli autori sviluppano un sostanziale omaggio alla «black radical tradition». È proprio in questo testo che si trovano alcune intuizioni che hanno condotto alla presente intervista. Harney e Moten, infatti, sono in primo luogo tra i pochissimi ad aver fatto fuoriuscire lo studio della logistica dal campo militare. In secondo luogo, essi hanno portato alla luce un fattore che riteniamo davvero centrale per la comprensione della logistica, vale a dire la sua natura di “reazione”. È questo uno degli elementi chiave contenuto nell’intervista. Già in The Undercommons, Harney sottolineava come la logistica «was founded in the Atlantic slave trade, founded against the Atlantic slave» (p. 92). Allo stesso modo, qui di seguito si potranno leggere altri passaggi in cui viene presentata la medesima prospettiva, capace di mettere in discussione la stessa definizione di “rivoluzione logistica” degli anni cinquanta e sessanta. Insomma, Harney rappresenta una voce tanto importante quanto originale all’interno dei critical logistical studies. È forse l’unico che ha cercato di approfondire in modo inedito una prospettiva storica che non si limiti a uno sguardo sull’ultimo mezzo secolo.

Oltre a The Undercommons, Harney è autore di numerosi altri saggi. Tra i più importanti ricordiamo All Incomplete (Minor Compositions, 2018), Politics Surrounded («The south atlantic quarterly», 2011) – entrambi scritti con Fred Moten – e Unfinished Business: The Cultural Commodity and its Labour Process, (Cultural Studies, 2010).

Una versione estesa di questa intervista (pensata e sviluppata per «Zapruder» e lì pubblicata in forma breve sul numero 46 della rivista) è pubblicata anche in inglese sulla rivista «Social Text Periscope» (https://socialtextjournal.org/periscope/ in uscita).

(https://pixabay.com/it/schiavo-wall-dicendo-graffiti-2614959/)

Niccolò Cuppini, Mattia Frapporti: Un’interpretazione diffusa e generalmente condivisa colloca le origini della logistica al campo della strategia militare. Seminale fu in questo senso l’opera di Martin van Creveld del 1977 intitolata Supplying war. Logistics from Wallenstein to Patton (ripubblicata da Cambridge University Press nel 2004) che identifica le origini della logistica nel «periodo che va dal 1560 al 1660, descritto come la “military revolution”» (p. 7). Pur accettando questa prospettiva, in The Undercommons tu e Moten andate oltre questa interpretazione e collocate la nascita della logistica moderna al primo enorme movimento di “merci” di cui si ha notizia: quello degli schiavi nella cosiddetta tratta atlantica. Ci spieghi questa diversa prospettiva e questa scelta?

Stefano Harney: La logistica moderna, secondo la nostra interpretazione, ha un’origine commerciale, e si radica in quello che nei termini di Cedric J. Robinson potremmo chiamare “racial capitalism” (Black Marxism: The Maxing of the Black Racial Tradition, University of North Carolina Press, 2000). La logistica è una “scienza capitalista”. Ancora oggi, se si osserva con attenzione, si nota come la logistica militare sia spesso subappaltata a imprese commerciali, le quali raggiungono profitti enormi dalla odierna situazione di guerra permanente. In quanto “scienza capitalista”, la logistica commerciale ha dunque origine nella tratta atlantica, che può essere certamente considerata come il primo grande, voluminoso e grottesco movimento globale di “merci” della storia.

Quel particolare tipo di commercio aveva evidentemente delle caratteristiche del tutto particolari. In fondo le “merci” trattate erano deperibili, potevano “andare perse” durante il viaggio, ed erano difficili da “estrarre” perfino se si mettevano in campo complesse tecnologie logistiche supportate dalla finanza, dalle assicurazioni, dalla legge e – naturalmente – da violenze statali ed extra-statali. Non a caso Ian Baucam in Spectre of the Atlantic (Durham, Duke University Press, 2005) colloca l’avvento delle stesse “assicurazioni” nella loro forma moderna proprio lì, lungo le rotte transoceaniche del commercio di schiavi. E in effetti questo aspetto rispecchia certamente alcune caratteristiche della logistica oggi. Come ha scritto ad esempio Sergio Bologna in diverse occasioni, logistica e finanza sono oggi collegate e intimamente intrecciate all’interno dell’industria navale. Tutt’altro che un fenomeno recente: fin dalla tratta degli schiavi del Cinque e Seicento la finanza speculativa era ampiamente all’opera e proprio lì si possono scorgere le origini di un binomio iconico del capitalismo contemporaneo.

Rispetto a quest’ultimo aspetto la storia della nave negriera Zong è davvero paradigmatica ed è ben raccontata, oltre che da Baucam, anche dalla poetessa e autrice canadese Marlene Nourbese Philip nel suo libro intitolato proprio Zong! (Middletown, Wesleyan University Press, 2008). Durante la traversata oceanica nel 1781 una parte significativa di un carico di schiavi venne buttata a mare a causa di alcune clausole assicurative. Cento trentatré persone vennero eliminate perché non garantivano più la rendita stimata inizialmente, tanto che il capitano pensò di poter guadagnare di più dall’assicurazione stipulata su di essi che non dal loro valore commerciale una volta raggiunto il Nuovo mondo. Fu una vera e propria operazione logistica che, grazie al diabolico intreccio con la finanza, volle fin dal principio tentare di “desoggettivizzare” le persone trasportate. Né soggetti, né propriamente oggetti, queste “cose che parlavano” rappresentavano una massiccia, sotterranea, eterea e “undercommon” minaccia all’emergere dell’ “Uomo moderno”, che proprio in quel periodo iniziava a calcare la scena globale. Considerati come una qualsiasi altra merce, il capitano della nave poteva disporre degli schiavi a suo piacimento e così non ebbe problemi a compiere un vero e proprio massacro.

Ma la “tratta Atlantica” rappresenta l’origine della logistica moderna anche perché essa non comprendeva soltanto l’arte di trasportare grandi quantità di merci, informazioni o energia, né soltanto di pensare a una mobilità efficiente ed efficace. Quella prima forma di logistica mirava anche ad ottenere quello che potremmo definire in linea generale una forma di controllo sociale. Una accessibilità verso il soggetto guidata dalla sociopatia: accessibilità topografica, giurisdizionale ma allo stesso tempo, per l’appunto, anche corporea e sociale. È questa la reale ambizione della logistica oggi: una pressoché totale accessibilità come era allora imposta agli schiavi africani. Ed è per questo, dunque, che la tratta schiavistica rimane così intrinsecamente contemporanea. Come giustamente sottolinea Jared Sexton «abolition is yet to come»1.

A tutto questo potremmo pure aggiungere che tale abolizione richiederebbe in qualche modo l’abolizione della logistica stessa, la quale crea di per sé stessa persone sradicate: individui che non stanno da nessuna parte. Dovremmo puntare all’abolizione non per rivendicare uno spazio in cui stare, ma piuttosto per creare una spazialità oltre lo stare. La logistica di oggi, con i suoi magazzini e i suoi container, intende tanto controllare quanto assicurare i flussi; allo stesso tempo mira a interfacciare il movimento delle merci e la loro finanziarizzazione, e al contempo a recapitarle dove è previsto che esse arrivino. Sempre che ciò, ovviamente, porti del profitto. È anche qui che ritroviamo l’orribile retaggio della tratta Atlantica: la conteinerizzazione delle persone, la domanda sociopatica d’accesso al lavoro e al sesso, e all’immagazzinamento, nei forti, o nelle stive. E ancor più cinicamente, l’eliminazione delle merci, di interi carichi, quando il prezzo crolla, o a causa di considerazioni dell’alta finanza. Detta in estrema sintesi, questa generalizzata licenza di decidere sulle merci trasportate sebbene fossero esseri umani – questa estesa accessibilità ha permesso di inserire quegli uomini all’interno di un freddo calcolo che ne valutasse la deperibilità, l’obsolescenza e il costo della loro sostituzione. In altre parole: speculazione finanziaria sulla supply line che era – nel caso della tratta degli schiavi africani – sostanzialmente indistinguibile dalla “linea di produzione”. Come ebbe a dire Marx, il lavoratore per prima cosa “produce” sé stesso. Gli schiavi erano al tempo stesso lavoratori nella catena di produzione e “rifornimenti” per implementare quella stessa catena. E come qualsiasi altro oggetto potevano essere sacrificati se sopravvenivano impreviste possibilità di profitto. Il che è, con le dovute proporzioni, un po’ quello che accade oggi.

Su quelle navi e in quelle stive, tuttavia, non ebbe origine soltanto la logistica. Nacque anche quella che qui chiamerei come logisticality. In breve potremmo considerarla come una sorta di empatia, di resilienza figlia della situazione comune che gli schiavi si trovavano ad affrontare. Come ha scritto Frank Wilderson alla fine delle sue magnifiche memorie intitolate Incognegro (Durham, Duke University Press, 2015): «qualcosa accadde ad ognuno di noi in quelle stive». E non soltanto «nelle stive», dovremmo aggiungere. Nel suo straziante ma imprescindibile Lose your mother Saidiya Hartman (New York, Farrar Straus & Giroux, 2008) parla delle “forme di fuga” [fugitivity in originale, N.d.T.] che gli ingovernati e ingovernabili dell’Africa furono giocoforza costretti a inventare. Nacque allora la capacità di ritrovarsi e capirsi reciprocamente, di muoversi assieme, di rompere le regole newtoniane di tempo e spazio, di scompigliare queste stesse regole per riprodurre un tempo e uno spazio totalmente nuovi per disordinare, per riunirsi, abbandonati in un rifugio comune, creando le prime forme di contrologistica che esplosero poi nelle rivolte di Haiti o nei numerosi tentativi di insubordinazione di quell’idra dalle molte teste rappresentata dagli schiavi dell’Atlantico. Gli schiavi africani allora cominciarono un’esistenza nuova, prescindendo dall’origine con cui erano “in contatto” – “inoriginariamente” come direbbe Nahum Chandler2, e producendo piuttosto una radicale apertura dell’essere, una pratica di contatto senza superficie, confine o limite. Una pratica di connessione empatica: di “reciprocità”3. Con Moten, intendiamo con “reciprocità” proprio questo: una sorta di contatto senza superficie che scarta, che risucchia la febbre dell’individualismo all’interno di un talvolta violento e profano esorcismo. Non è un contatto tranquillizzante. È, al contrario, intrinsecamente inaffidabile: è un tocco d’amore.

In un certo senso allora, gli schiavi stessi che attraversarono l’inferno del viaggio oceanico potrebbero essere chiamati “contro-logistica”, anche perché essi ne rovesciavano effettivamente gli obiettivi sottesi proprio attraverso la logisticality che possiamo interpretare attraverso due registri, come ho già in qualche modo annunciato. In un primo registro possiamo affidarci ai lavori dello storico Cyril Lionel Robert James, soprattutto dove quest’ultimo sottolinea come gli schiavi abbiano saputo coltivare le piantagioni dei Caraibi sviluppando una straordinaria capacità di adattarsi attraverso una mezza dozzina di lingue europee e africane in questa prima fase cruciale e importantissima del capitalismo globale. Furono proprio gli schiavi a gestire la nascente macchina capitalista degli zuccherifici, e che gestirono la “logistica” dei trasporti alle navi e – talvolta – sulle navi. Insomma, basta leggere James4 per farsi un’idea sulla varietà dei lavori svolti dagli schiavi i quali sono da considerarsi davvero i primi lavoratori globali già in un’epoca in cui la maggior parte delle nostre famiglie in Italia o in Europa «conoscevano soltanto il loro campanile». Se si pensa a questo confronto si ha la cifra della forza empatica e adattiva che quelle persone straordinariamente svilupparono.

Questa logisticality – questo ritrovamento quantico, questa reciprocità –, questa sensazione senza una superficie che contrasta e ama nello stesso momento, potrebbe anche essere intesa attraverso un secondo registro che riguarda la capacità di ricreare il già citato principio di “incompletezza” richiamato da Robinson, tanto da identificarlo e tradurlo in ingovernabilità dei “senza regola”, dei “senza ordine”, dei “senza legge”: percepire queste cose, e percepire il sentimento negli altri che vedono in te una comunanza di condizione. La reciprocità allora non fu mai schiavizzata del tutto, nemmeno quando gli schiavisti americani applicarono la loro brutalità sostenuta da una modalità d’azione che potremmo definire taylorista, con il sorgere del commercio di cotone e del capitalismo industriale alla fine del XVIII secolo – come vedremo tra poco. Ma ciò che è ancor più importante è che essa fu la base della «black radical tradition»: sopravvisse nella poesia sociale radicale come ha scritto Laura Harris; sopravvisse nella negritudine.

Insomma, per concludere: il trasporto nelle navi schiaviste, la containerizzazione, l’avvento della tratta atlantica degli schiavi fu l’origine della moderna logistica. Allo stesso tempo però sulla scena della storia apparve anche qualcos’altro: un sentimento che permise la nascita di un senso di reciprocità – di soggettivazione antagonista – che esplose poi nelle rivolte caraibiche e nordamericane.

NC, MF: Vorremmo ora proseguire su questa linea genealogica che tiene assieme logistica e contrologistica chiedendoti come questo rapporto si definisce nelle fasi storiche successive a quelle da te indicate fino ad ora. In particolare, questo connubio come si sviluppa nel periodo della cosiddetta “rivoluzione industriale” o nella prima fase di globalizzazione?

SH: Prima di rispondere compiutamente alla domanda permettetemi di fare un inciso alla risposta precedente che mi sembra davvero importante. Lo farò a partire da Immanuel Kant. Come scrisse il filosofo in più d’un occasione, dovremmo trattare gli uomini come fini e non come mezzi. Ciò, a un primo sguardo, sembra contrastare con la storia della logistica, dove gli uomini e le donne erano trattati come mezzi rivolto a un fine. In un primo momento infatti, le persone e le cose erano mobilitate quali mezzi utili al fine del profitto attraverso guerre e conquiste. In un secondo momento però, con la “tratta Atlantica” degli schiavi e i primi insediamenti coloniali, il profitto si raggiungeva non più attraverso guerra, ma grazie al già richiamato «racial capitalism». La logistica consegna esseri umani, animali, energia e altri beni materiali per un fine preciso e anche in un punto preciso: il punto di produzione. Ma il luogo della consegna includeva, crucialmente, il punto della produzione degli insediamenti coloniali, così come il punto di produzione degli imprenditori, dei banchieri, dei mercanti di schiavi, e degli investitori. Queste figure sono prodotte come fini. Sono quel tipo di persona che riesce a “farsi da solo”, ad essere auto-sufficiente e auto-determinato. Kant forse auspicava che tutti sarebbero divenuti in questo modo. Aspirava a cercare quest’uomo emancipato dalla tutela di qualcun altro: ma per trovarlo era necessario il sorgere della logistica. Ciò perché l’unica via per creare questo tipo di uomo come fine – o meglio, ogni tipo di uomo, nella misura in cui Uomo possa essere inteso in senso maiuscolo – era di mobilitare e consegnare le risorse che permettessero a questa richiesta di indipendenza falsa e delirante di sembrare plausibile. Questi mezzi sono utilizzati per un solo fine: la produzione del profitto e una forma di “cispatriarcato” che supportasse e rendesse possibile l’illusione di uomini auto-prodotti che potessero definirsi dei fini in sé.

Ora, mi sembra che intendere gli uomini nella direzione volta a questo fine sia qualcosa che si può definire un declassamento dei mezzi. Ed è precisamente quanto avveniva durante la tratta atlantica e il commercio degli schiavi. Esseri umani diventavano oggetti qualsiasi di cui ci si poteva disfare in qualsiasi momento. O, più generalmente, si potevano utilizzare per giungere al profitto. A ben pensarci, la definizione della logistica più adatta che si potrebbe trovare è forse proprio questa: un generalizzato declassamento dei mezzi. La resistenza a questo declassamento, le rivolte e le rivoluzioni che gli schiavi compirono poterono nascere e svilupparsi proprio grazie a quanto sopra abbiamo chiamato logisticality.

In altri termini, quando con Moten parliamo di reciprocità parliamo di un materialismo dietro il materialismo, o sotto di esso, un “undercommon materialism”, che è poi quello che la nostra amica filosofa Denise Ferreira da Silva chiama “differenza senza separabilità”. Questa reciprocità è la risposta alla logistica, al declassamento dei mezzi per produrre uomini come fine in sé stessi. La nostra abilità di sentirci uniti agli altri è al contempo storica e magica, dolorosa e bellissima. È in questo modo che noi potremmo ereditare – o che ereditiamo e basta – un “sottomaterialismo” sperimentale fatto di suoni, sensazioni, gusti e tatto. È quanto definirei appunto “undercommon materialism” il quale, avendo negato il fine, lo rifiuta a favore di questo mezzo terribile. Ciò comprende quanto Cedric Robinson chiama la capacità «di recuperare cose che presumibilmente non esistono più». E se ci fosse una teoria – un senso teorico precoce, un po’ come quello di Marx – sarebbe una teoria che in qualche modo, inevitabilmente, sfuggirebbe.

In effetti ciò crea un bel problema per i pensatori illuminati, alla ricerca dell’universalità del fine. E tra questi andrebbero annoverati anche alcuni pensatori della sinistra contemporanea. Questo problema lo vediamo chiaramente se ci rifacciamo a Hegel, in particolare se volgiamo l’attenzione al suo approfondimento sull’usufrutto. Nel suo Lineamenti di filosofia del diritto, a seguito di una lunga disamina sulla schiavitù dove asserisce che sia gli schiavi sia i padroni cesseranno di esistere e diventeranno volontà indipendenti quando saranno storicamente pronti, Hegel si sposta poi a parlare – senza un collegamento diretto apparente – della legge e della tradizione dell’usufrutto. L’utilizzo della proprietà di qualcun altro per fini propri, e l’idea di migliorare quella stessa proprietà, è quanto a livello teorico disturba profondamente il filosofo tedesco. Quanto egli sostiene teoricamente, infatti, è che non si possano avere due volontà, due possibili padroni in una singola proprietà. Non potrebbe esserci progresso per Hegel dove si installassero usufruttuari e «naked owners», come vengono ancora oggi chiamati, ad esempio, in Luisiana5. Una volontà e una soltanto dovrebbe prevalere. Ed Hegel è chiaramente dalla parte di valorizzare il proprietario, il concessore dell’usufrutto. La valorizzazione richiede una volontà dominante. O semplicemente una volontà in sé stessa, o un uomo come fine, dominante sui «naked owners».

Dopo questo lungo ma necessario preambolo rispondo alla vostra domanda. Nei campi di cotone dove gli schiavi venivano impiegati con il “management delle piantagioni” si sviluppò e perfezionò l’organizzazione logistica del capitalismo. A tal proposito basti pensare al testo di Edward Baptist The Half Has Never Been Told (Basic Book, 2014), dove sono descritte le origini dell’incontro tra le forme moderne di management e la logistica. Questa nuova forma di produzione, scrive Baptist, venne sviluppata in risposta alla domanda crescente di cotone e alla necessità di spostare parte degli schiavi su altre coltivazioni. Ora, a seguito delle nuove prospettive di profitto offerte dalla aumentata necessità di materia prima derivante dall’avvento delle industrie tessili, i proprietari delle piantagioni pensarono a delle innovazioni che ne aumentassero la produttività. Ciò portò a una drastica riorganizzazione del lavoro. Inizialmente, infatti, nella raccolta del riso, dell’indaco, o della canna da zucchero, agli schiavi era permesso di formare delle squadre che potessero collaborare nei lavori più duri. A seguito delle “innovazioni” tutto questo non fu più concesso. Gli schiavi vennero disposti in lunghe file di raccoglitori che si susseguivano tra i filari di cotone. Il miglior raccoglitore, il più efficiente, veniva messo in prima posizione per dettare il ritmo. Ogni schiavo divenne così indotto ad aumentare la sua capacità di raccolta, ma soprattutto nessuno poteva aiutare qualcun altro in difficoltà: chi lo avesse fatto sarebbe incorso in punizioni, torture o morte. Aiutare qualcuno era punito più severamente che aumentare il peso del proprio raccolto con dei sassi o della frutta. La produttività individuale divenne un mezzo per misurare e migliorare l’intera linea di produzione. Ognuno era responsabile di sé stesso e di quanto produceva. E basta. Non ci fu mai più un esempio più brutale della riduzione della logisticality alla logistica: ogni tentativo di portare aiuto a qualche compagno in difficoltà veniva punito ferocemente.

Marx stesso tentò di fissare questo punto a modo suo, proprio come ha fatto Frederick Douglass. Non ho mai capito perché il giovane Marx è considerato umanista, mentre il vecchio Marx non lo è. A me è sempre sembrato l’opposto. Il giovane Marx sembrava pronto a esplorare «l’undercommon materialism» senza il soggetto, forzando la sinestesia che non appartiene agli Uomini. Il vecchio Marx ha anch’egli un soggetto della storia, prima il capitale, e poi le società di produttori, lasciando la sinistra con il compito di migliorare la logistica del suo soggetto collettivo. Qualcosa che possiamo ritrovare nei dibatti più recenti sulla logistica portati avanti da una prospettiva di sinistra. Forse è ciò che Althusser cercava di emendare. In ogni caso, la logistica divenne presto indistinguibile dalle infrastrutture con l’avvento del capitalismo industriale sulla scia della linea del cotone. Mentre un tempo una infrastruttura – un villaggio o perfino un acquedotto imperiale – poteva sostenere la produzione della vita, ora essa era costruita soltanto per migliorare il capitalismo stesso. E le stesse infrastrutture sarebbero diventate funzionali alla logistica, funzionali al declassamento dei mezzi, almeno fino a che non si raggiungesse quello che potrebbe essere la sua conclusione nella “resilienza” dell’oggi.

NC, MF: E poi vennero le fabbriche… Risalendo la china della modernità non possiamo allora fare a meno di giungere al cuore della prima rivoluzione industriale. In questo schema come potrebbe essere inquadrato lo sviluppo della logistica? Possiamo affermare che non si comprende la fabbrica se non guardando all’Atlantico e all’interno di un sistema logistico complesso, come scrisse del resto anche lo stesso William Du Bois? E, continuando con uno sguardo parallelo a logistica e contrologistica, quali forme di “espressione” trova quest’ultima nel momento in cui il fulcro della produzione diventa la nuova industria, assieme e attorno alla quale iniziano ad espandersi i nuovi centri urbani?

SH: Con il sorgere del “regno del cotone” e con la prima rivoluzione industriale, lo sviluppo delle industrie fece emergere la prospettiva di due tipi di flussi intrecciati e sovrapposti, come già stava avvenendo nelle Barbados, ad Haiti, in Jamaica e in altri pionieristici centri logistici. Da un lato abbiamo il flusso di materiale grezzo; dall’altro il flusso della linea di produzione dentro la fabbrica. Detto altrimenti: colonialismo e industrializzazione capitalista. Per questo motivo è utile e corretto parlare di Du Bois: perché guardare a Manchester significa necessariamente guardare all’oceano Atlantico. Dopo questo passaggio è impossibile volgere nuovamente gli occhi a Manchester allo stesso modo.

L’integrazione di questi due flussi entro un unico “flusso continuo” – come lo chiamò lo stesso Marx – sarà alla fine opera del management della seconda metà del XX secolo, che ha sostanzialmente lasciato immutato o approfondito l’interdipendenza di questa coppia di fattori. Il lavoro della logistica – intrecciato a quello della finanza – rimane in un certo senso quello di gestire la relazione tra queste due formazioni sociali che animano i flussi. Il progetto di “Nuova via della seta” che il governo di Pechino sta sviluppando in questi anni, mostra del resto quanto quella relazione sia rimasta sostanzialmente immutata.

Sebbene la loro interdipendenza contribuì fortemente allo sviluppo del mercato globale, durante la prima rivoluzione industriale i due flussi non erano però ancora totalmente integrati. E tuttavia, già allora si potevano intravedere i preavvisi di questa futura fusione, e della stessa subordinazione del lavoro a questi flussi. Di tutto questo si trovano elementi in abbondanza nella «black radical tradition». In Renegades, Mariners, and Castaways (University Press of New England, 2001), Cyril James riscrive in parte la storia della baleniera del New England che dava la caccia a Moby Dick, e lo fa in un modo del tutto particolare. Parla cioè della nave descritta da Melville come di una vera e propria fabbrica. La catena di rifornimenti e la fabbrica divennero una cosa sola su quel bastimento. La balena è catturata e “lavorata” direttamente a bordo. Nella ciurma ognuno ha un compito specifico e la “nave-industria” traccia letteralmente la sua catena di montaggio attraverso l’oceano.

All’altro lato della nostra dialettica, o forse parallelamente a essa, nella storia del mercato globale troviamo un esempio dell’emergere della logisticality in un nuovo libro di Marisa Fuentes sulle donne schiave e fuggitive nelle Barbados del XVIII secolo, intitolato Dispossessed Lives (University of Pennsylvania Press, 2016). Nel tentativo di ricostruire la vita di queste donne, Fuentes sembra non avere molto materiale su cui lavorare: di conseguenza non può che concentrarsi sulle assenze. Le fuggitive di Bridgetown non avevano davvero alcun posto dove andare, e gli archivi ci raccontano soltanto i fatti più essenziali, freddi e crudeli delle loro vite. Le donne schiave, spesso le più oppresse dal peso dei due flussi che si congiungevano in questa precoce forma di hub, dovettero inventare nuove modalità attraverso cui proteggere e praticare la loro logisticality e coltivare con chi amavano il segreto non troppo recondito della reciprocità.

Quelle donne produssero così forme di comunicazione adattate alla sorveglianza rigida di quel luogo e anche alla sua topografia. Crearono manualmente un archivio dei sospiri, degli sguardi e delle occhiate. L’assenza di un archivio ufficiale fu esattamente il motivo per cui poté emergere questo “archivio ribelle”. La grande minaccia di questo archivio costruito sulla reciprocità è che non può essere rinchiuso né “collocato” (per richiamare un pensiero di Foucault). Questa era la sua dolorosa bellezza: quella che vede apparire questo archivio senza alcun clamore, ora come oggi. È, come scrive Nadia Ellis, «blackness ‘at large’»6. Un sabotaggio della linea che la linea non può veder arrivare, una festa a sorpresa della “parte maledetta”.

In mezzo a questi preavvisi, anche qualcos’altro iniziò ad emergere – qualcosa che Du Bois avrebbe poi chiamato la “linea globale del colore” (cfr. Sulla linea del colore. Razza e democrazia negli Stati Uniti e nel mondo, a cura di S Mezzadra, Bologna, il Mulino, 2010). Questa catena di montaggio globale e il mondo in cui veniva implementata, specialmente da schiavi africani e da lavoratori coloniali vincolati o coatti, produsse un nuovo tipo di collettività che si sviluppò non soltanto lungo quelle linee ma anche trasversalmente ad esse, tra le comunità che si formavano in fuga da quelle linee: è “l’archivio” delle curve, delle deviazioni, delle revisioni e delle improvvisazioni della logisticality. Questo è quanto intende Nadia Ellis quando parla di «blackness ‘at large’». E certamente sentiamo sulla scia di questa definizione un eco di criminalità nella nozione di “allargamento”, di non-cattura, di fuga. Le linee e le curve significano un tale spirito collettivo – un tale senso comune – da poter essere riprodotto ovunque. Le collettività allargate e la logisticality producono una generalizzata paura della negritudine, del comunismo e del sentimento queer. “Allargarsi” lungo questa linea significa “poter essere ovunque”. È esattamente contro queste possibilità che si scaglia l’avvento delle industrie, che racchiusero chi invece poteva diffondere questo sentimento comune.

Come ho detto – e lo sottolineo nuovamente – con Moten abbiamo adattato il termine usufrutto per parlare dell’avvento congiunto sul finire del XVIII secolo di due tipi di sviluppo. Da una parte lo sviluppo più prettamente economico, e in particolare lo sviluppo proprietario, finanche degli esseri umani; dall’altra parte l’auto-sviluppo, specialmente quello guidato dall’obiettivo di dimostrare che si può migliorare se stessi e, di conseguenza, essere eventualmente qualificati come supervisori dello sviluppo della proprietà e degli altri. Il sorgere di questi “nuovi” soggetti che si sono “fatti da sé”, che sentono anzi il bisogno soltanto di loro stessi per migliorarsi in quanto autodeterminati e autosufficienti, rappresenta davvero una figura genocida e geocida. Questa figura è stata minacciosa fin dall’avvento del colonialismo europeo. Inizialmente era spinta da un sentimento “anti-mori” in difesa della cristianità, nella direzione di un auto-miglioramento che solo Dio poteva garantire: ciò non li rese comunque meno brutali nelle loro azioni. Al di là di questi episodi, la vera affermazione di quella figura avvenne però con la combinazione e il miglioramento delle piantagioni nelle colonie, e con l’affermarsi dei principi illuministi. E, di lì a poco, fu la figura che divenne proprietaria delle industrie. I suoi proclami di autosufficienza, e di essersi “fatto da sé”, sono tanto grotteschi e pericolosi quanto l’idea che le fortificazioni coloniali fossero sovrane e anch’esse autosufficienti. Queste ultime contavano sul territorio e sulla popolazione a cui sottraevano grandi quantità di risorse necessarie alla loro sopravvivenza. Allo stesso modo, questi soggetti “fatti da sé”, queste inedite figure borghesi, necessitavano anche loro di una massiccia quantità di risorse per potersi definire autosufficienti: una necessità che non riconosceranno mai. Oltre al lavoro riproduttivo delle donne, dei bambini, dei vecchi e dei servi, a quel tipo di soggetto apparentemente “autosufficiente” servivano le catene di rifornimento e di assemblaggio, e il lavoro di altri che si sviluppava su di esse. E, come se non bastasse, a quegli stessi soggetti serviva lo sfruttamento massiccio del pianeta Terra, su cui questo sistema si basa: distruzioni della biosfera attraverso le monoculture, attività estrattiva, eccetera. Questo è il soggetto borghese autosufficiente, – l’imprenditore – e con la sua democratizzazione – come scrive Angela Mitropolous7 richiamando quanto proprio Du Bois definisce “dispotismo democratico” – “lui e il suo” ci mette ancora una volta di fronte alle conseguenze provocate dal genocidio e dal geocidio di cui è responsabile. Ovviamente la proliferazione di questi soggetti moderni scacciò la logisticality di coloro i quali rigettarono l’idea dell’individualizzazione. Così la situazione si fece più precaria che mai.

NC, MF: Dopo questa ampia panoramica storica ci piacerebbe concludere con delle riflessione più legate all’attualità. In primo luogo, molti autori parlano di una “logistics revolution” avvenuta negli anni cinquanta e sessanta del XX secolo. Considerando i diversi spunti che hai finora offerto, ci verrebbe da problematizzare questa temporalizzazione mettendo piuttosto in luce le molteplici provenienze storiche della logistica intesa come un processo di lungo periodo. Che ne pensi? In secondo luogo, come si articola a tuo avviso oggi la relazione tra logistica e contrologistica? Ci piacerebbe sentire la tua opinione sia da un punto di vista teorico, sia rispetto agli episodi concreti che si stanno sviluppando in tutto il panorama globale.

SH: Ripartiamo da Marx. Il Capitale, libro I, capitolo 13: «La macchina operatrice combinata che ora è un sistema articolato di singole macchine operatrici eterogenee e di gruppi di esse, è tanto più perfetta quanto più è continuativo il suo processo complessivo». Marx già parlava in questo passaggio di quello che sarebbe poi stato definito il management totale. Detto in giapponese: kaizen. La logistica è tanto antica quanto il circuito del capitale stesso, come Marx ci insegna. E quel circuito, come ho già suggerito, si formò nella tratta atlantica degli schiavi e nel colonialismo. Questa innovazione fu davvero la logistics revolution. Ciò detto, non possiamo certo sottostimare quanto accadde subito dopo la Seconda guerra mondiale. E non si tratta soltanto della diffusione del container a partire dalla guerra del Vietnam, o altre manifestazioni simili. Si tratta piuttosto del cambiamento strutturale dei processi interni al capitale (che peraltro portarono con sé anche un cambiamento delle forme di conflittualità sociale): è quello che Sandro Mezzadra e Brett Neilson chiamano le «operazioni del capitale»8. Nello specifico, operazioni di management, lo studio dei movimenti sulla linea d’assemblaggio, incontri e incorporazioni tra la supply chain da un lato e i clienti dall’altro. Questa divenne la nuova macchina globale del lavoro. Rifornimenti, produzione e consumo divennero in una certa misura un tutt’uno, e ciò avvenne grazie alla “scienza capitalista” del management: è questo processo storico che culminò nel kaizen. Adesso ogni singolo soggetto è individualmente responsabile non soltanto del flusso della linea d’assemblaggio, ma anche del suo continuo miglioramento, a prescindere se esso sia o meno formalmente coinvolto (assunto) e legato da un contratto di lavoro. La metrica economica è brutale, e funziona perché la logistica produce una porta d’ingresso, che a sua volta ti inserisce nella metrica. È un circolo vizioso.
Con tutto questo, si badi bene, non voglio certo negare l’utilità di considerare le differenti storie che stanno all’origine della logistica: differenti genealogie che si addicono perfettamente a uno dei tanti fattori che hanno determinato il capitalismo globale. Insomma, certamente i lavori di Deborah Cowen (su tutti
The Deadly Life of Logistics, University of Minnesota Press, 2014) sulla logistica sono di fondamentale importanza, come del resto non sono da meno quelli di Edna Bonacich (Getting the Goods, Cornell University Press, 2008, scritto con Jake Wilson). Allo stesso tempo possiamo considerare lavori imprescindibili anche quelli di Mezzadra e Neilson9, quelli di Sergio Bologna10 ovviamente, e – legati alla relazione tra logistica e algoritmi – i lavori pionieristici di Ned Rossiter11, Tiziana Terranova12 e Matteo Pasquinelli13, solo per citare tre autori che ricoprono una certa importanza, almeno per me. Credo inoltre che dovremmo essere grati anche ai lavori sulle infrastrutture svolti, tra gli altri, da Abdoumalik-Simone14. E non posso non citare inoltre gli eccellenti lavori sulla contro-logistica di Alberto Toscano15, e molti altri. Last but not least, lasciatemelo dire, voglio menzionare anche il lavoro degli stessi curatori di questo numero16, e l’idea di dedicare un monografico di «Zapruder» alla logistica!
Rispetto alla seconda parte della domanda, per quanto mi riguarda è importante ribadire la differenza che c’è tra contrologistica e la logisticality. Almeno per come la intendiamo io e Moten. La contrologistica è una strategia vitale, tanto quanto gli scioperi o l’attivismo nelle strade; o come è vitale la resistenza e l’opposizione ai soprusi di qualsiasi natura: è un elemento cruciale per la stessa vita dell’essere umano. Ma talvolta la contrologistica si rapporta alla logistica attraverso un registro che sembra porla di fronte a due scelte ineludibili: o prenderla in consegna o abolirla (almeno in gran parte).

La logisticality invece è qualcosa di diverso e per questo non è sottoposta a tale scelta. Intendiamo infatti la logisticality come un qualcosa di precedente, come direbbe Mario Tronti: le nostre abilità di muoverci assieme e di accedere l’uno accanto all’altro vengono prima; i nostri movimenti attraverso e assieme agli altri, così come quelli con e sul nostro pianeta, vengono prima. Da questo punto di vista, la logistica insegue le nostre abilità. In un certo senso allora, il logistical capitalism è di per sé stesso contrologistica. L’organizzazione logistica del capitalismo deve prendere in considerazione questa minaccia, e trovare un modo per superarla, per raddrizzarci e organizzarci, per controllarci. Con Moten abbiamo scritto degli assassini dei neri perpetrati dalla polizia con questa idea in testa – quella secondo cui i neri violano la domanda di completa e immediata sottomissione alla polizia – e la violano a priori a causa del fatto che il suprematismo bianco che pervade la società posiziona i neri sia in un limbo imperscrutabile, sia senza possibilità che essi possano essere resi trasparenti. Michael Brown, ucciso dalla polizia a Ferguson (Stati uniti) nel 2013, venne descritto dal suo assassino – un ufficiale di polizia – come un mostro.
In questa prospettiva, credo che la domanda dovrebbe essere la seguente: considerando quanto la logistica intende fare, come possiamo mantenere e coltivare il nostro senso di reciprocità?
Detta altrimenti: come potremmo rimanere radicalmente aperti nonostante la guerra del logistical capitalism, una guerra che mira, nel peggiore dei modi possibili, a un accesso completo verso noi stessi? Questo mi sembra sia davvero il nostro compito – trovare la via che ci permetta di restare aperti nei confronti dell’altro, che permetta ai nostri significati di esplorare il pieno coinvolgimento delle nostre vite assieme e il nostro pieno coinvolgimento per questo amore, per questa sofferenza, per questa gioa verso gli altri sulla faccia della terra. Dobbiamo trovare quello il mio amico Manolo Callahan chiama i nuovi «habits of assembly»17, che non sono certo quelle della catena logistica.
In chiusura, per rispondere all’ultima parte della vostra domanda vorrei provare a fare delle previsioni. O meglio, visto che forse non sarei proprio la persona più adatta a questo compito, vorrei anzitutto menzionare alcuni autori che, con i loro lavori, potrebbero offrirci le giuste coordinate per orientarci nell’immediato futuro del
logistical capitalism. Rimanderei in prima battuta a colleghi che sono alle prese con l’analisi degli algoritmi come Luciana Parisi, o come i summenzionati Terranova, Pasquinelli e Rossiter. Allo stesso tempo, personalmente sto imparando molto da una nuova generazione di studiosi della «black radical tradition» come Terrion Williamson, Alvaro Reyes, Che Gossett, Dhanveer Brar e Fumi Okiji.

Quello che vorrei ripetere come conclusione personale è qualcosa che ho sentito recentemente sostenere da Judith Butler. Forse è giunto il momento di tornare al primo Marx, al suo interesse teorico verso i sensi. Dovremmo ricordarci che un’altro termine per indicare i nostri mezzi potrebbe essere proprio sensi. Tradizionalmente, del resto, i nostri sensi erano incaricati di portarci qualcosa, di trasmettercelo, di condurlo “logisticamente” al nostro cervello, alla nostra mente, alla nostra ragione. Seguirono molti dibattiti. Ma quello che suggerì il giovane Marx è forse qualcosa che potremmo utilizzare contro la sua previsione di management totale. Che accadrebbe se si potesse riscoprire una eguaglianza materiale che si confronti con il logistical capitalism? Sarebbe un materialismo dei sensi teorici, uno sviluppo dei nostri mezzi come fine in sé stessi? Potrebbe questo sviluppo teorico essere radicalmente aperto e accessibile tanto da ritirare le sue relazioni con i fini, rifiutando di raddrizzarci e di attraversarci? Potrebbe la reciprocità della «black radical tradition» che anticipò Marx essere essa stessa questa teoria e questa pratica? Potremmo mai pianificare uno sciopero generale contro il logistical capitalism attraverso la radicale auto-organizzazione, l’organizzazione collettiva dei nostri sensi, una comunità di sensi con nuove «habits of assembly», una rinnovata assembly dei mezzi? Insomma, potremmo mai pianificare un assembly di reciprocità? Proprio questo, in fondo, sarebbe il nuovo assembly dei mezzi: il nostro assemblaggio sottomarino di reciprocità.

1 Sexton parla utilizza questa formula più o meno riadattata in vari scritti. Cfr. ad esempio, J. Sexton, “Afro-Pessimism: The Unclear Word”, in Rhizomes: Cultural Studies in Emerging Knowledge, Issue 29, 2016. Disponibile qui: http://www.rhizomes.net/issue29/sexton.html. N.d.T.

2 Chandler è autore di testi importanti tra i quali si segnalano: N. Chandler, Toward an African Future: Of the Limit of World, Living Commons Collective, 2013; e Id., X―The Problem of the Negro as a Problem for Thought, American Literature Initiative, 2014.

3 Il termine inglese utilizzato da Harney nella versione originale del testo è “hapticality”. In fase di traduzione si è deciso di utilizzare quale equivalente italiano il termine “reciprocità”.

4 Cfr. C.L.R. James (1938), I giacobini neri. La prima rivolta contro l’uomo bianco, Roma, DeriveApprodi, 2015. Vedi soprattutto il capitolo sui “proprietari degli schiavi”. N.d.T.

5 I «naked owner» sono gli eredi di una proprietà nel momento in cui scade l’usufrutto. Esempio: A è proprietario di un campo. A lascia che B utilizzi quello stesso campo fino alla sua morte, con la clausola che quando B morirà il campo passi come proprietà a C. In questo caso A è il proprietario; B è l’usufruttuario; C è il «naked owner». Vedi http://www.mylouisianasuccession.com/louisiana/usufruct/ N.d.T.

6 N. Ellis, Territories of the Soul: Queered Belonging in the Black Diaspora, Durham, Duke University Press, 2015. N.d.T.

7 Cfr. ad esempio A. Mitropolous, Contract & Contagion: From Biopolitics to Oikonomia, New York, Minor Composition, 2012. N.d.T.

8 Cfr. S. Mezzadra, B. Neilson, Confini e frontiere. La moltiplicazione del lavoro nel mondo globale, Bologna, il Mulino, 2014. N.d.T.

9 Cfr. S. Mezzadra, B. Neilson, Confini e frontiere, cit. Vedi anche S. Mezzadra, B. Neilson, “Extraction, logistics, finance. Global crisis and the politics of operations”, in Radical Philosophy 178, marzo-aprile, 2013, pp. 8-18; e B. Neilson, “Five Theses on Understanding Logistics as Power”, in Distinktion: Scandinavian Journal of Social Theory, Vol. 13, N. 3, 2012, pp. 323–40. N.d.T.

10 S. Bologna, Le multinazionali del mare, Milano, Egea, 2010; S. Bologna, Banche e crisi. Dal petrolio al container, Roma, DeriveApprodi, 2013. In quest’ultimo testo sono inseriti alcuni saggi apparsi per la prima volta sulla rivista “Primo Maggio”. Per approfondire il pensiero di questo autore vedi rubrica “Sei domande sulla storia” in questo numero. N.d.T.

11 Tra gli altri vedi B. Neilson, N. Rossiter, “Still Waiting, Still Moving: On Labour, Logistics and Maritime Industries”, in D. Bissel, G. Fuller (a cura di), Stillness in a Mobile World, Londra e New York, Routledge, 2011, pp. 51-68.Id , “The logistical city: Software, infrastructure, labor”, Transit Labour 4, 2012. Id, Software, Infrastructure, Labor: A Media Theory of Logistical Nightmares, Londra, Routledge, 2016. N.d.T.

12 Su tutti vedi T. Terranova, Network Culture. Politics for the Information Age, Londra, Pluto Press, 2004. N.d.T.

13 Cfr. M. Pasquinelli (a cura di), Gli algoritmi del capitale. Accelerazionismo, macchine della conoscenza e autonomia del comune, Verona: Ombrecorte, 2014; Id. (a cura di), Alleys of Your Mind: Augmented Intelligence and Its Traumas, Leuphania, meson press, 2010. N.d.T.

14 A. Simone, For the City Yet to Come: Urban Life in Four African Cities, Durham, Duke University Press, 2004. N.d.T.

15 A. Toscano, Lineament of the logistical State, https://www.viewpointmag.com/2014/09/28/lineaments-of-the-logistical-state/. N.d.T.

16 N. Cuppini, M. Frapporti, M. Pirone, “Logistics Struggles in the Po Valley Region: Territorial Transformations and Processes of Antagonistic Subjectivation”, The South Atlantic Quarterly, Vol. 114, N. 1, 2015, pp. 119-134. N.d.T.

17 Cfr. M. Callahan, “Insurgent Learning and Convivial Research: Universidad de la Tierra, Califas”, 26 gennaio 2017. Reperibile qui: http://artseverywhere.ca/2017/01/26/insurgent-learning-convivial-research-universidad-de-la-tierra-califas/. Il testo presenta il progetto “Universidad de la Tierra, Califas” come “as a convivial tool to examine both its strategy and practice in pursuing prefigurative, convivial, and networked pedagogies outside of the dominant educational system”. N.d.T.

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