Articoli, Pubblicazioni

Possiamo fare a meno del concetto di Natura? Alcune domande di base di fronte alla crisi climatica

Il saggio che pubblichiamo fa parte di Costruire giustizia climatica, l’instant book di Researchers for Climate Justice. Il volume è frutto della giornata di discussione ‘Costruire giustizia climatica’ che si è tenuta il 18 maggio 2023 in Piazza Scaravilli, a Bologna.

Come scrive Bologna for Climate Justice, “La giornata, organizzata dopo un percorso di incontri e assemblee, si è svolta poche ore dopo che l’Emilia-Romagna è stata travolta dall’alluvione. In quei giorni, tutto s’è fermato. Scuole, università e biblioteche chiuse, eventi sociali annullati. Nonostante le difficoltà, la giornata di discussione ha visto un’ampia partecipazione, e l’alluvione è diventata allo stesso tempo prova concreta dell’urgenza di porre con forza queste tematiche, e simbolo delle conseguenze di decenni di profitti generati bruciando fonti fossili e cementificando il territorio. La giustizia climatica non si poteva rinviare. Perché viviamo sulla nostra pelle le conseguenze tragiche della crisi climatica. Perché il riscaldamento globale rovina le vite di miliardi di persone, mentre le sue cause arricchiscono il 10% della popolazione mondiale”. Il volume sarà presentato il 22 settembre alle ore 18:30 nell’ambito del programma di (Fe)Stivale ed è scaricabile gratuitamente.

Nel nostro contributo ci siamo interrogati su alcuni nodi teorici che, a nostro avviso, sono fondamentali per la definizione di una strategia radicale di fronte alle sfide poste dalla crisi climatica. Ci siamo chiesti, in particolare, di cosa parliamo quando utilizziamo il concetto di natura: Stiamo attraversando una crisi climatica? Sì. Come la affrontiamo, ripensando il sistema produttivo o adattando quello esistente alle risorse a disposizione?


Digital generated image of two semi spheres connected together in one planet.
Scarica questa immagine su: gettyimages.com | Dettagli licenza
Autore: Andriy Onufriyenko | Ringraziamenti: Getty Images | Copyright: © Andriy Onufriyenko

È noto come alle origini del progetto della modernità in Europa stia la separazione concettuale, di matrice cartesiana, tra l’umano e la Natura.

Un gesto teorico che “inventando” la Natura come un fuori, o, forse più correttamente, pensando la condizione umana come distanziamento da una condizione naturale (vedi Hobbes e l’uscita dallo “stato di natura” come passaggio necessario per entrare nella modernità dello Stato), apre alla possibilità di concepire la completa trasformazione per mano umana dell’ambiente. Progetto grandioso e terribile, con tratti utopici e distopici al contempo.

Separarsi dalla Natura significa anche rompere con il quadro teologico delle epoche precedenti. L’umanità è diventata matura, non necessita più di una legittimazione di tipo divino per vivere politicamente. Qui si apre lo spiraglio della continua illegittimità del potere, la vertigine del moderno, sempre sospeso tra libertà selvaggia e forme di dominio.

Inoltre, qui si apre anche quella che Marx definì come “frattura metabolica”, una formula che negli ultimi anni è stata abbondantemente ripresa da varie correnti di ecologia politica, e che indica l’instabile relazione ecologica tra infrastrutture sociali e nature non umane. Con l’affermarsi del capitalismo, il complesso interscambio tra esseri umani e “ambiente”, risultato del lavoro, produce sempre più l’alienazione della “natura” (e del lavoro) vista come una risorsa – materie prime – gratuita e liberamente a disposizione.

Oggi il sogno dei grandi miliardari come Elon Musk di colonizzare e terraformare Marte sembra un qualcosa di nuovo, ma in realtà il colonialismo, ad esempio nel Nord America, è stato un esperimento riuscito di terraformazione di un subcontinente, che nel giro di pochi secoli ha completamente cambiato volto creando un nuovo metabolismo che stravolse le forme di vita precedenti.

La divisione metabolica definita a grandi linee da Marx come “la rottura irreparabile nel processo interdipendente del metabolismo sociale” ha ormai assunto una dimensione planetaria e la crisi climatica – concepibile come uno squilibrio fra modo di produzione capitalistico e risorse a disposizione – è l’espressione preminente di questa divisione metabolica.

Quali prospettive si possono adottare oggi di fronte all’immensità delle questioni che abbiamo di fronte?

Da un lato, si tratta probabilmente di affinare una prospettiva filosofico-politica che rompa con la divisione binaria società/natura operata dal moderno: pensare l’umanità e l’“ambiente” come qualcosa di non mutualmente escludentesi, come “la stessa cosa”, e da qui provare a immaginare nuovi metabolismi non alienanti, conduce anche a una domanda politica scabrosa.

Per fare ciò, dobbiamo anche abbandonare l’altro aspetto dell’origine del moderno, ossia la rottura col teologico? In altre parole, l’umano deve perdere coscientemente agency e affidarsi a una “natura” autonoma, quasi personificata con tratti “divini”, una natura riparatrice che ricostruirà un “corretto” metabolismo sulle macerie della società dei consumi? E cosa sarebbe corretto, per chi, verso cosa?

O invece, dall’altro lato, consapevoli dei disastri che ciò ha generato, si tratta di riprendere in mano un progetto umano di costruzione metabolica nell’ecosistema che viviamo, che possa partire da domande come “per chi”, “verso cosa”? Non c’è insomma una “natura” esterna da noi da difendere, ma nuove ecologie da immaginare e costruire.

Se non pensiamo alla Natura come a un Dio, se pensiamo l’umanità come parte agente di un ecosistema, sfuma la differenza tra una metropoli e una foresta, non c’è un ordine della foresta generato da Dio e un ordine urbano generato dall’Uomo, ma una serie di metabolismi complessi e instabili sui quali si tratta di decidere come intervenire.

E, ovviamente, c’è una presa d’atto anticapitalista. Stiamo attraversando una crisi climatica? Sì. Come la affrontiamo, ripensando il sistema produttivo o adattando quello esistente alle risorse a disposizione? Ci pare che parte del dibattito critico del nuovo millennio abbia divorziato dall’ambizione a un radicale cambiamento dello stato di cose presenti e dalla lotta per l’innovazione tecnologica lasciando l’ultima alle imprese e sostituendo la prima con una personificazione della natura rispetto alla quale dovremmo farci da parte, decrescere noi per far sì che sia essa ad espandersi. Questa scelta, a nostro avviso, è fuori strada. Di fatto, ristabilisce il binarismo del moderno invertendolo di senso, lasciando che stavolta sia la “natura” a prendere in mano il processo di trasformazione. Saremmo pronti a vivere le conseguenze di questa scelta di lasciare a una natura certo non magnanima (per natura!) il nostro futuro?

Piuttosto, c’è bisogno di ripensare un ecosistema nella sua complessità a partire dalla frattura metabolica: di quali infrastrutture sociali abbiamo bisogno? In che modo queste possono trovare un equilibrio con il resto del vivente?  Nuovi progetti per nuovi metabolismi sul Pianeta, dunque: una nuova terraformazione non colonialista ma commonista e non alienante, è possibile? Per fare questo, serve non meno, ma più scienza. Non meno, ma più tecnologia. Ci paiono questi alcune dei nodi di base, chiaramente posti qui in modo tendenzioso, rispetto ai quali misurarsi per impostare una riflessione politica collettiva sulla crisi climatica e il mondo nuovo che ci aspetta.

Articoli Correlati