Alle frontiere dell'Amazon-Capitalism, Eventi

TechnoFinance

Quinto seminario del ciclo Alle frontiere dell’Amazon-capitalism
Introduce e coordina: Maurilio Pirone
Con: Giulia dal Maso e Sandro Gobetti


Il ciclo adotta Amazon quale punto di ingresso per indagare alcune frontiere cruciali dello sviluppo capitalistico contemporaneo.

In questo incontro approfondiremo il legame fra finanza, grandi corporations e piattaforme digitali. La connessione fra questi tre elementi non può essere limitata alla critica dei paradisi fiscali e alla necessità di sviluppare politiche di redistribuzione efficaci. Va compresa la portata di questo nesso – per certi versi inedito – fra operazioni del capitale. Non è possibile concepire l’esplosione delle piattaforme dopo la crisi del 2007/2008 senza prendere in considerazione gli ingenti investimenti finanziari che ne hanno permesso l’espansione – e che ne condizionano in parte le forme del lavoro e di business. In questo senso, Amazon è una di quelle aziende la cui crescita accelerata è avvenuta in costante intreccio con la finanza. Allo stesso tempo, la finanza non è rimasta immune dal più generale processo di digitalizzazione che sta attraversando il capitalismo contemporaneo: oggi assistiamo a una piattaformizzazione della finanza, di cui sono un esempio le blockchains, criptovalute e micro-trading.

Quali sono gli effetti sulle nostre vite di questo nesso fra finanza e piattaforme? Quali conflitti si generano?

A ridosso del seminario condivideremo un documento di introduzione al dibattito.
L’incontro sarà in presenza e in diretta Facebook.


Quando parliamo di Amazon, come di altre Big Tech o piattaforme digitali, pensiamo subito alla loro capacità tecnologica e all’infrastruttura logistica. Eppure, entrambe – la logistica e l’innovazione digitale – non sono concepibili senza un forte riferimento alle operazioni dei capitali finanziari.

La crisi del 2007/8 – una crisi prima di tutto finanziaria che ha travolto con sé anche l’economia reale – ha determinato – fra le altre cose – un cambiamento nelle strategie di fondi e trader internazionali. In quel momento, infatti, alcuni prodotti finanziari altamente speculativi e redditizi nel breve termine hanno smesso di colpo di essere così attrattivi, anche perché al centro dell’instabilità economica globale. Come in ogni crisi una delle strategie capitalistiche per rilanciare i processi di accumulazione è quella di investire sul capitale fisso, l’innovazione tecnologica e gestionale, così anche stavolta i capitali finanziari – approfittando dei bassissimi tassi di interesse garantiti dalle banche centrali – si sono spostati sui prodotti tecnologici e l’innovazione digitale. In altre parole, abbiamo assistito ad una finanziarizzazione dell’innovazione tecnologica laddove lo sviluppo di nuove infrastrutture e dispositivi digitali è stato sostenuto, spinto, accelerato e inglobato da logiche finanziarie di investimento a medio-lungo termine.   

Prendiamo il caso delle piattaforme – intese sia come modello di impresa che come infrastruttura digitale. Non possiamo comprendere lo sviluppo e le logiche di business delle piattaforme digitali senza tenere in contro le dinamiche finanziarie alle loro spalle. La logica della crescita prima dei profitti – contraria ai principi dell’impresa snella ed efficiente – necessità di una disponibilità economica in grado di coprire le perdite del breve periodo, disponibilità che viene sempre da round di finanziamento di fondi di venture capital. Non a caso il gap in termini di accesso al finanziamento ci permette di spiegare – in parte – le difficoltà delle cooperative di piattaforma di fronte alle grandi aziende globali. Si tratta di una declinazione particolare di quella che abbiamo imparato a conoscere come l’economia della promessa, costruita in parte sul valore potenziale di un bene o di un’azienda. L’economia della promessa è una economia della scommessa capitalistica sulla crescita economia e sull’innovazione e non può che essere una economia finanziaria laddove la finanzia apporta quei capitali per la costruzione del futuro e il compimento della promessa.  

Amazon rientra pienamente in questa logica: lo sviluppo dei suoi servizi logistici e digitali non sarebbe stato possibile senza un grosso sostegno finanziario ottenuto con la promessa di una posizione di monopolio a lungo termine che a sua volta costituisce la base per attrarre ulteriori finanziamenti che servono a sviluppare nuove innovazioni tecnologiche e manageriali. Con la sua quotazione in borsa nel 1997 Amazon ha iniziato a raccogliere i primi finanziamenti. Negli anni successivi, è stata una delle prime società della new economy a finanziarsi con titoli di debito: 2,25 miliardi già nel marzo 2000, che permisero all’azienda di sopravvivere allo scoppio della bolla – che per inciso si originava proprio dalla crescita spropositata delle prime aziende della new economy a causa degli ingenti quanto poco giustificati investimenti finanziari. I primi anni dopo la quotazione sono stati i più complicati sia dal punto di vista operativo (la logistica faticava a decollare), sia sotto il profilo finanziario (Amazon accumulava perdite su perdite e non offriva dividendi e guadagni nel breve termine). Bezos aveva però investito sul lungo periodo. Proprio a partire dal periodo chiave del 2013-2014 la fiducia degli investitori è diventata certezza e oggi il valore azionario di Amazon è tra i più alti in borsa (1700 miliardi di dollari). La crescita del valore azionario ha permesso ad Amazon di finanziare la sua espansione logistica sull’ultimo miglio, cominciata nello stesso periodo. A sua volta gli investimenti aumentavano l’efficienza e il fatturato, e questo aumentava la solidità finanziaria del gruppo. Allo stesso tempo l’azienda ha adottato strategie fiscali mirate a ridurre notevolmente il peso della tassazione sui suoi bilanci.

Va altresì notato come le piattaforme abbiano permesso un’espansione delle logiche e dei meccanismi finanziari tale da estendere questi ultimi anche al lavoro vivo e alla riproduzione sociale. Logiche di microcredito pervadono il lavoro di piattaforma, in primis in Uber e Airbnb dove la necessità di dotarsi di asset materiali al posto dell’azienda – casa, automobile – è preliminare alla possibilità di collocarsi nell’ecosistema digitale nei termini dell’imprenditore di se stesso. Si tratta di un’evoluzione dell’antropologia politica dell’uomo indebitato – per riprendere Maurizio Lazzarato – che non diventa più tale all’interno di dinamiche di consumo ma seguendo una logica neoliberale della valorizzazione di se stesso.

Va infine sottolineato che il rapporto fra finanza e digitale non segue solo una direzione – dalla prima alla seconda – ma percorre anche la direzione inversa. Oggi assistiamo a una digitalizzazione della finanza che è al centro di una profonda trasformazione sotto la spinta di nuovi prodotti come le blockchains, gli NFT, il microtrading, le critpovalute. Si tratta di un cambiamento tanto nelle forme delle operazioni finanziarie che nei soggetti, tanto che qualcuno ha parlato di democratizzazione della finanza. Ma è davvero così? Siamo davvero davanti ad una decentralizzazione dei processi di valorizzazione come promesso dalle blockchains? Prendiamo ad esempio queste ultime. I processi di mining richiedono grandi capacità di calcolo che solo pochi possono garantire. O prendiamo in esame le piattaforme di trading online che promettono a tutti di poter fare investimenti finanziari. L’antropologia liberale dell’imprenditore di se stesso prende la forma dell’investitore digitale. Allo stesso tempo queste piattaforme di micro-trading possono trasformarsi in spazi per operazioni di “pirateria finanziaria” che sconvolgono le strategie dei grandi trader, come nel caso di Game Stop. Siamo dunque davanti a uno sfruttamento della cooperazione sociale? O stiamo assistendo alla costituzione di nuovi segmenti di capitale in lotta contro altri? Allo stesso tempo va sottolineato come questi nuovi strumenti finanziari operino parzialmente al di fuori del controllo delle istituzioni tradizionalmente incaricate a gestirne l’andamento. Queste ultime, in alcuni casi hanno messo in campo politiche di contrasto allo sviluppo della finanza digitale. In altri casi invece stanno tentando di rientrare in controllo di questi strumenti (Cina) o hanno aperto le porte alla loro espansione (Salvador). Possiamo collocare queste differenti strategie all’interno di un cambiamento più ampio nei rapporti di potere a livello globale, con una perdita di egemonia del dollaro nei mercati internazionali?


Letture consigliate:

G. Dal Maso, Risky Expertise in Chinese Financialisation, Palgrave, 2020

A. Fumagalli, Greatful Dead Economy, Agenzia X, 2016

D. Quaranta, Surfing con Satoshi. Arte, blockchain e NFT, Postmedia Books 2021. F. De Collibus e R. Mauro, Hacking finance. La rivoluzione del bitcoin e della blockchain

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