Alle frontiere dell'Amazon-Capitalism, Eventi, Multimedia

L’Algoritmo e il Leviatano


Quarto seminario del ciclo Alle frontiere dell’Amazon-capitalism.
Introduce e coordina: Mattia Frapporti
Con: Sandro Mezzadra e Silvano Cacciari


Il ciclo adotta Amazon quale punto di ingresso per indagare alcune frontiere cruciali dello sviluppo capitalistico contemporaneo.
In questo incontro, guarderemo ad Amazon e all’algoritmo quali “poteri” concorrenti e talvolta conflittuali rispetto a quelli dello Stato.
Partendo da una disamina storica, vedremo come in realtà non sia di certo la prima volta che forme e prerogative tipiche della statualità moderna siano esercitate da un’entità economica (e logistica), sebbene Amazon lo faccia oggi con modalità inedite.Che rapporto c’è tra l’algoritmo (di Amazon, ma non solo) e il Leviatano? Si può sostenere che Amazon concorra al governo di uno Stato? E in che termini si muove tale sorta di “sovranità algoritmica?
A ridosso del seminario condivideremo un documento di introduzione al dibattito.
L’incontro sarà in presenza e in diretta Facebook.


Letture consigliate
B. Bratton (2016), The Stack. On Software and Sovereignty, MIT Press.
K. Easterling (2014), Extrastatecraft. The power of Infrastructure, Londra-Brooklyn, Verso.
P. Stern (2012), The Company-State: Corporate Sovereignty and the Early Modern Foundations of the British Empire in India, Oxford UP. See less


Introduzione

Nel 2012 Charles S. Maier pubblicava il suo famoso libro Leviatano 2.0. Nell’ultima sezione dell’ultimo capitolo intitolata “Verso un Leviatano 3.0?”, Maier discuteva la spinta dagli anni Ottanta in direzione di un sempre inferiore interventismo statale in favore di altri soggetti della governance (non necessariamente parlava di attori economici), ed evidenziava la possibilità che realtà di recente ascesa come Google svolgessero «un ruolo pubblico più ampio» (2018, p. 305). Questa prospettiva, scritta solo dieci anni fa, necessita di un aggiornamento. Oggi non soltanto viviamo un mondo costruito su geografie eterogenee e nuove relazioni tra lo Stato e i territori sostenute dalle «operazioni del capitale» (Mezzadra e Neilson 2020). Nella «società delle piattaforme» di oggi (VanDijck, Poell, De Wall, 2018; Srinceck 2016), dove reale e virtuale conformano un intreccio sempre più intimo, attori come Amazon (ma non è certo l’unico) stanno guadagnando un potere crescente talvolta in diretta concorrenza o contrapposizione con quello dello stesso attore statale. Sebbene infatti – almeno formalmente – la “sovranità” rimanga totalmente nelle mani dello Stato (invero, nelle sue molteplici varianti), il ruolo che questi attori ricoprono nella vita pubblica sta guadagnando una crescente centralità. A questo punto la domanda è: qual è oggi la relazione tra lo Stato e Amazon o, detta più in generali, gli altri attori della governance? È evidentemente una domanda in qualche modo semplificata: lo Stato non è mai apparso come un soggetto autonomo e unitario, ma piuttosto una complessa e stratificata forma di potere dove non sono mai mancate parti in conflitto. E, inoltre, non può nemmeno considerarsi come modello unitario: la “provincializzazione dell’Europa” e del suo sguardo proposta vent’anni fa da Chakrabarthy dovrebbe coinvolgere anche la nostra interpretazione dello Stato, la cui visione andrebbe almeno globalizzata e colta nelle molteplicità di “forme Stato” che colorano il panorama globale (Gherardi e Ricciardi, 2009). Al netto di queste due puntualizzazioni, ci sembra che la domanda di fondo rimanga: che rapporto intercorre tra le differenti forme di sovranità incorporate dagli Stati e gli altri attori non-statali impegnati nella gestione della relazione fra risorse, territorio e popolazione? E, in secondo luogo: siamo di fronte a modalità di relazione tra Stati e alti agenti della governace che davvero possiamo definire inedite? Che c’è di nuovo nella “sovranità graduata” (per richiamare un testo di Aihwa Ong del 2000) del presente globale? A ben guardare infatti, il ruolo politico di grandi compagnie multinazionali puntella la storia del capitalismo, almeno nella sua fase industriale. Proviamo allora a vedere le origini di questo rapporto e la sua proiezione attuale.

Il Leviatano -> sovranità

«L’unico modo in cui gli uomini possono erigere un potere comune che sia in grado di difenderli dall’aggressione di stranieri e dai torti reciproci, e quindi di garantire una sicurezza tale che essi possano sostenersi e viver bene grazie alla loro industria e ai frutti della terra, è quello di conferire tutto il loro potere e la loro forza a un uomo o a un’assemblea di uomini che, a maggioranza di voti, possano ridurre tutte le loro volontà a una volontà unica». Detto questo, qualche riga dopo, ma sempre nel famoso capitolo 17, Hobbes prosegue: «Ciò fatto, la moltitudine così unita in un’unica persona è detta STATO, in latino CIVITAS. Questa è la generazione del grande LEVIATANO» (Hobbes 2011, p. 181-182). Il testo del filosofo inglese, pubblicato nel 1651, tratteggiava – per la verità già dalla sua celebre copertina – i tratti della forma Stato moderna diffusasi in Europa. Vari altri filosofi prima e dopo Hobbes (da Bodin a Weber) si sono misurati con sullo stesso tema e, generalizzando e sintetizzando molto, possiamo dire che le caratteristiche che attribuivano alla statualità erano (oltre al monopolio dell’uso della forza, della legislazione e del conio della moneta) la famosa triade territorio, popolazione, sovranità. È evidentemente su quest’ultima dote che vogliamo concentrarci in questo incontro. E vogliamo farlo a partire da un assunto che riprendiamo dallo stesso testo di Maier citato in apertura: «Anche se i teorici della politica hanno insistito frequentemente sul fatto che la sovranità [degli Stati] è assoluta, nella pratica essa si è spesso rivelata parziale, oppure inserita all’interno di strutture imperiali e associative» (2018, p. 9). Questo, come abbiamo visto, è certamente vero oggi: basti pensare a forme di “unione” tra più Stati come l’UE. A ben guardare, tuttavia, tale intreccio non appare una prerogativa del tempo presente.

A supporto di questa affermazione vogliamo rapidamente richiamare l’esempio storico delle “Company-States”, le compagnie logistiche che fin dalla metà del ‘600 co-governavano o, talvolta, concorrevano con lo Stato stesso a governare immensi porzioni di territorio sparse per il globo. In un testo recente, Philipps e Scharman mostrano compiutamente come compagnie quali la East India Company inglese o olandese (EIC), o la Hudson Bay Company (HBC) stante in Canada, fossero caratterizzate da «extensive sovereign powers, formidable armies and navies, and practical indipendence» (2020, p. 1). Furono agenti ibridi, istituzioni dell’ «espansionismo e imperialismo» europeo che giocarono un ruolo cruciale «to build the first global international society» (p. 16). Emerse dal «patchwork sovereignty arrangments of medieval Europe» (p. 22), dove il potere era condiviso con attori quali la Chiesa, le università, le città, le gilde di mercanti ecc., tra il XVII e il XIX secolo le company-states fungevano da reali agenti sovrani. Emblematici in questo senso sono i casi della British EIC o della HBC che a un certo punto «was nominally suzerein of territories approximatin almost 10 percent of the world’s land surface» (p. 18). In linea generale possiamo dunque accodarci alla tesi di Philipps e Scharman secondo cui, in primo luogo, il sistema internazionale non fu costruito attraverso la diffusione di Stati sovrani, ma piuttosto di compagnie mercantili (e logistiche) che racchiudevano reali funzioni di governo. In secondo luogo, emerge come da qualche secolo la sovranità su un territorio non fosse affatto sempre nelle mani di un solo attore, quanto piuttosto racchiudesse un “patchwork” di realtà talvolta perfino in competizione.

In un altro contributo Philipps e Scharman sottolineano in effetti come nei secoli tra il XVII o XIX, e con particolare riguardo agli imperi, abbia poco senso considerare la sovranità in termini di interno ed esterno. Richiamando lo storico delle relazioni internazionali John Gerard Ruggie, essi preferiscono piuttosto parlare di “eteronomia”, intesa appunto come «a patchwork of overlapping and incomplete rights of government» (Philipps e Scharman 2015, p. 439). Attraverso la nozione di eteronomia essi riescono a cogliere in maniera efficace le molteplici forme di sovranità che in maniera concorrente o sovrapposta hanno caratterizzato per l’appunto l’età moderna. E del resto, se non di eteronimia, altri storici delle “charted companies” hanno parlato di “nebula of power” in riferimento alle compagnie portoghesi che condividevano la sovranità di territori d’oltre mare con Lisbona, o appunto di “company-state” in riferimento a realtà come quelle delle compagnie delle indie olandese e britannica o della HBC.

Seppur non inedito, prendiamo dunque con favore lo strumento interpretativo che ci offrono Philipps e Scharman. Allo stesso modo, tuttavia, non possiamo non contestarne un’altra affermazione contenuta nello stesso articolo, ma anche nel loro testo Outsourcing Empire citato poco sopra. Con uno sguardo rivolto al presente, gli autori affermano: «We live today in an unusually homogenous era» (Philipps e Scharman 2015, p. 437). È davvero così? No: la situazione attuale ci sembra tutt’altro che omogenea.

L’algoritmo -> sovranità 4.0

Ben prima dell’emergere delle piattaforme sul palcoscenico dei nuovi attori della governance contemporanea, filosofi e teorici facevano notare la molteplicità di spazi che caratterizzano la geografia del tempo presente. Keller Easterling, ad esempio, in un breve ed efficace libro del 2014 parlava del “potere delle infrastrutture” in quello che definiva l’ “extrastatecraft”. Scrive Easterling: «The zone – a.k.a., the Free Trade Zone, Foreign Trade Zone, Special Economic Zone, Export Processing Zone, or any of the dozens of variant – is a dynamic crossroads of trade, finance, management and communication» (2014). Zone speciali, di produzione, commercio, esportazione ecc. Oppure zone (o meglio spazialità) logistiche. Famosa Deborah Cowen che parla del presente come «a time of logisitcs space» (Cowen 2014). Giorgio Grappi ha approfondito, in un libro di ormai cinque anni fa, la diffusione e le caratteristiche finanche politiche dei «corridoi logistici», prendendo come riferimento – ma non certo per escludere casi meno noti, si pensi all’America Latina – il progetto della “nuova via della seta” di matrice cinese. Di nuovo Easterling definisce «infrastructural space» casi come quelli di Abu Dabi e Dubai; Sacchetto e Andrijasevic hanno analizzato nel dettaglio la proliferazione di Special Economic Zones nel cuore dell’UE, e nello specifico in Repubblica Ceca ad esempio; e, a proposito di UE, a ben guardare appare un’istituzione del tutto peculiare, che sulla costruzione di corridoi logistici ha realizzato la base materiale su cui poggiare il progetto politico.

Tutte queste analisi e prospettive, emerse perlopiù nei primi anni Dieci del nuovo millennio, si concentravano sulla varietà di spazi fisici che componevano (e tuttora compongono) la realtà materiale. Una realtà dove lo Stato e tutt’altro che l’unico agente di sovranità e dove le “eccezioni” strutturano la norma. A complessificare questo panorama geografico, negli ultimi anni – e in particolare dopo il «crash» del 2008 – ha assunto crescente centralità politica lo spazio digitale – il reale “disruptive development” degli ultimi decenni – che, per la verità, non possiamo che considerare sempre più intrecciato e sovrapposto a quello analogico. Nel suggestivo incipit di Red Mirror, Simone Pieranni descrive una giornata trascorsa a Pechino nel marzo 2019. Dalla colazione all’ultimo drink della serata, l’interazione con la realtà avviene anche grazie a WeChat, un’applicazione diffusa in Cina dal 2011, proprietà del colosso Tencent che oggi conta ben oltre un miliardo di utenti. WeChat in Cina, e il Metaverso zuckerbergiano in Occidente, sono soltanto i due esempi maggiormente palesi di integrazione tra materiale e digitale. Allargando lo sguardo risulta invero come una molteplicità di piattaforme o app siano mediatrici di relazioni sociali e politiche del tutto “materiali”: l’algoritmo diventa oggi legge; il digitale e il cloud sono un nuovo “spazio” da governare.

Nel descrivere questa sovrapposizione di strati materiali e digitali che concorrono al governo della società, Benjamin Bratton ha efficacemente coniato la metafora della “pila” (lo “Stack”[1]). Se lo Stato deriva la sua nozione di sovranità dall’occupazione del territorio, l’algoritmo, e dunque le piattaforme, governano il cloud che non soltanto risulta come parte integrante del “materiale”, ma con esso intrattiene una relazione di mutua influenza. Un po’ come le “Company-States” del Settecento, anche l’algoritmo oggi governa in maniera coordinata o concorrente con lo Stato. Da un lato, è il caso ad esempio della Cina, il Leviatano estende il suo controllo (diretto o meno) sulle piattaforme e gli algoritmi, per insinuarsi nello spazio digitale e, attraverso quello spazio, instillarsi con ancora maggiore pregnanza nello spazio materiale. Dall’altro lato, l’algoritmo può risultare in diretta concorrenza col Leviatano in molteplice direzioni: ne vogliamo elencare almeno cinque. In primo luogo, l’algoritmo può imporre un nuovo terreno di contesa allo Stato, concorrendo direttamente al suo governo. In questo caso è lo Stato stesso a dover correre ai ripari per difendere le sue prerogative nello spazio digitale che, come visto, è inscindibile e funzionale a quello reale. In questo senso, un esempio su tutti: tra i nuovi terreni di contesa non possiamo non considerare come prominente quello delle criptovalute che – nemmeno troppo velatamente – sfidano uno dei principi cardine dello Stato, vale a dire quello legato al conio della moneta. Ci torneremo tra poco. In secondo luogo, l’accesso e la gestione dei dati (o meglio: dei Big-Data) garantiscono un potere incommensurabile alle piattaforme come Amazon con infinita capacità di calcolo, tanto che possono “imporre” al Leviatano di scendere a patti per trovare una soluzione di governo vantaggiosa per entrambi gli attori: la forza dell’algoritmo guida i termini della sfida. In terzo luogo, la concorrenza tra algoritmo e Leviatano la possiamo sondare nei termini di legislazione sul lavoro e tassazione. Attività di lobbying più o meno intensa erige le piattaforme al soglio del governo delle dinamiche che determinano condizioni di lavoro e tassazione: lo Stato non sempre accetta l’ingerenza, ponendosi in questi casi in aperta sfida. In quarto luogo, piattaforme come Amazon (come visto anche al seminario scorso) conservano la reale “intelligenza” della città: le smart city oggi sono in maniera evidente governate dalla commistione tra istituzioni reali e soggetti digitali. A quando gli smart states? In quinto luogo, e legato al punto precedente, la necessità di governare sistemi sempre più complessi e intrecciati, e nondimeno basati sul principio del just in time and to the point, impone una “razionalità logisitica” che rafforza la necessità di affidarsi ad algoritmi. E potremmo andare avanti.

Insomma, non siamo, ne arriveremo probabilmente mai, al «completo governo delle macchine» preconizzato da Bentham. Eppure, come scrivevano Mezzadra e Neilson già nel 2004 «lo Stato non è abbastanza potente per fronteggiare il capitalismo contemporaneo» (p. 727). Il Leviatano (pur nelle sue molteplici forme) non è più sufficiente alle sfide del presente. A quale nuova bestia mitologica affidarci?

Postilla -> guerra

Quando scoppia una guerra, o almeno, quando scoppia una guerra vicino a noi non possiamo non pensare a Schmitt: «sovrano è chi decide sullo stato d’eccezione». Nella parte sul nomos del cloud Bratton non schiva l’argomento: «For the Stack’s sovereign products, the decision over the exception remains crucial in several ways, including in relation to where and when the law is suspended on behalf of the drama of violence, but also where and when boundaries of Westphalian subdivisions have jurisdictional preeminence versus other spatial orders» (p. 21). Abbiamo visto in questi giorni di guerra quanto conti il controllo sullo spazio digitale nel computo delle sanzioni comminate alla Russia. Non soltanto piattaforme con la potenza di fuoco equiparabile a quella degli Stati (Amazon su tutti, ma potremmo parlare in maniera non troppo dissimile di Netflix, Pornhub, Spotify, TikTok etc) hanno agito direttamente per infliggere le “loro personali” sanzioni alla Russia. Lo stesso sistema di accesso a internet pare sia messo in discussione: “cogent communications” uno dei maggiori service providers globali, ha dichiarato di volere staccare la spina di internet alla Russia[2], con conseguenze apparentemente catastrofiche, a meno che una sorta di intranet statale paventato da Putin entri in azione.

Oltre a queste azioni singole, dirette da attori del mondo digitale (cui si affiancano altre azioni di attori del capitalismo tradizionale che hanno deciso in maniera diversa di colpire Putin e la Russia), nell’intreccio tra lo spazio del reale e quello del digitale, e l’eccezione che attraverso quest’ultimo può acuirsi o attenuarsi, appare estremamente significativo il ruolo svolto dalla “finanza digitale” e in particolare dalle criptovalute. Queste ultime, infatti, pare costituiscono un mercato finanziario parallelo a quello che scorre nei circuiti tradizionali che in qualche modo permetterebbe alla Russia e ai suoi cittadini di calmierare l’efficacia delle sanzioni stesse. A quanto si legge, numerosi “piccoli investitori” russi hanno nei giorni scorsi venduto rubli per comprare bitcoin o simili, eseguendo l’operazione sia nell’ottica di un investimento rispetto al prevedibile (e realizzatosi) calo del rublo, sia per garantirsi la versatilità del loro portafoglio economico anche nel momento in cui “sanzioni occidentali” dovessero andare a colpire investimenti privati. Come accennato sopra, le criptovalute rappresentano una sfida esplicita a uno dei capisaldi della sovranità. La guerra russo-ucraina non ha fatto che evidenziare una volta di più la forza dirompente dell’algoritmo. D’ora in avanti – ma forse ormai da qualche anno – nessun tipo di Leviatano potrà considerare il terreno del “materiale” come l’unico campo di battaglia.


[1] Andrebbe effettivamente notato almeno en passant che Bratton nella sua pila non considera lo Stato. Ora, senza doversi per forza schierare con Gerbaudo (2022) che parla in maniera ci sembra eccessiva di “neo-statismo”, ci sembra che l’esclusione di Bratton sia almeno problematizzabile.

[2] https://www.siliconrepublic.com/comms/russia-internet-backbone-cogent-ukraine

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