Alle frontiere dell'Amazon-Capitalism, Eventi, Multimedia

Cloud Metropolis

Terzo seminario del ciclo Alle frontiere dell’Amazon-capitalism
Introduce e coordina: Floriano Milesi
Con: Letizia Chiappini, Federico Rahola, Massimo Guareschi


Il ciclo adotta Amazon quale punto di ingresso per indagare alcune frontiere cruciali dello sviluppo capitalistico contemporaneo.
In questo incontro, Cloud Metropolis, ci concentreremo sull’emersione della metropoli planetaria 4.0 che si istituisce lungo le catene globali del valore, le rotte logistiche dell’urbanizzazione planetaria, la costruzione delle città digitali come piattaforme a partire dalle molteplici operazioni di Amazon, dal suo investimento sul cloud fino ai servizi di consegna.
Qual è il rapporto tra tecnologie digitali e trasformazioni urbane (platform urbanism)?
In che modo la dimensione planetaria e “immateriale” del cloud si relaziona alla capacità delle piattaforme di mettere a valore le specificità locali?
In che modo Amazon elabora la sua intelligenza urbana?
L’incontro sarà in presenza a Bologna e in diretta Facebook.


Per aprire il campo di problemi che vorremmo affrontare, una premessa. I due termini che compongono il titolo di questa discussione potrebbero essere produttivamente invertiti di posizione. Da un lato Cloud + Metropolis, dall’altro Metropolis + Cloud. Nella prima prospettiva, il significato da attribuire alla formula potrebbe essere: in che modo oggi il cloud inteso metaforicamente come spazialità digitale può essere considerato in sé una metropoli (stratificata, planetaria, virtuale ma con le sue infrastrutture materiali che la sorreggono)? Prendendo la questione al contrario potremmo invece domandarci: come il cloud si intreccia, potenzia l’urbano, definendo una sorta di iper-urbanità[1]? Più in profondità, i due termini possono essere davvero scissi, o ci troviamo al limite dentro un campo di tensione tra i due poli?

Per analizzare questa problématique proponiamo un ragionamento a imbuto da articolare seguendo tra cerchie: nella parte più ampia del cono posizioniamo il rapporto tra città (o, se vogliamo, tra ambiente costruito dall’umano) e tecnologia; nella parte centrale dell’imbuto collochiamo la frontiera attualmente più avanzata in merito, quella che viene definita platform urbanism, l’urbano digitalizzato; nella parte finale, la terza cerchia, situiamo le operazioni di Amazon come emblematiche del discorso che stiamo affrontando.

Prima cerchia

«È ovvio che i sintomi che indicheranno il probabile sviluppo dell’urbanesimo come modo di vita sociale si debbano cercare in relazione alle tendenze emergenti nel sistema delle comunicazioni, e alla tecnologia della produzione e distribuzione […]. La direzione dei cambiamenti in atto nell’urbanesimo trasformerà, nel bene o nel male, non solo la città, ma il mondo»[3].

Queste parole sono state scritte nel 1938 dal sociologo urbano Louis Wirth, il quale parlava del diffondersi della vita urbana garantito dal forte influsso despazializzante delle nuove tecnologie del suo tempo, che delocalizzano lo spazio urbano. Wirth considera in particolare la radio, e le attribuisce un forte potere democratizzante, così come un pò di anni dopo farà l’urbanista Lewis Mumford rispetto al diffondersi dell’automobile[4]. D’altra parte non è certo un mistero che la modernità urbana occidentale, la metropoli, sia figlia dell’industrializzazione, ponendo dunque anche qui la tecnologia come fattore urbano cruciale. Ed è altrettanto noto che uno dei maggiori architetti novecenteschi, Le Corbusier, abbia concettualizzato l’urbano in senso prettamente tecnologizzato, a partire dalla sua idea della casa come una machine à habiter.

L’avvento di Internet negli anni Novanta non ha tuttavia sufficientemente sollecitato la riflessione urbana, se non per fantasie elitiste (tornate di moda con la pandemia Covid-19) sulla fine delle città grazie al tele-lavoro o per quel che ha riguardato il mondo finanziario con le global city di Saskia Sassen. Inoltre la metafora prevalente del ‘virtuale’ per parlare di Internet ha totalmente de-materializzato la riflessione, rimandando la distorta impressione che “dietro” la Rete non esistano lavoro vivo e risorse. Un problema che rischia di persistere con la metafora del cloud, letta per lo più come qualcosa di etereo. Eppure “il cloud è una tecnologia estrattiva ad alta intensità di risorse, che converte acqua ed elettricità in potenza computazionale, lasciando dietro di sé una quantità considerevole di danni ambientali”[5].

Nell’ultimo decennio è venuta affermandosi una visione più materialistica dei processi di urbanizzazione, pensando ad esempio alla teorizzazione dell’urbanizzazione planetaria e al suo enfatizzare il metabolismo urbano e una geografia interconnessa tra zone estrattive, rotte logistiche, suburbi e aree metropolitane.

Anche la concezione di Internet si è affinata, fino a inquadrarlo come un vero e proprio ambiente (digitale) – rispetto al quale le piattaforme digitali, vere e proprie infrastrutture della rete, rappresentano quella che potremmo definire come l’“urbanizzazione di Internet”.

L’elemento che ci pare mancare è la capacità di comprendere l’intreccio, la giustapposizione, tra questi due layer, Internet e l’urbano, Cloud >  =  < Metropolis.

Seconda cerchia

Nel 1964 Marshall McLuhan introdusse per la prima volta, in Understanding Media: The Extensions of Man[6], l’idea del “villaggio globale”. Alla soglia dell’era elettronica, dopo quella meccanica e quella elettrica, gli effetti della tecnologia sull’umanità venivano inquadrati con il paradosso di un mondo che si fa piccolo villaggio e di un villaggio che si fa mondo, laddove la spersonalizzata visione globale del villaggio “elettrico” apporti più “discontinuità, e diversità, e divisione” di quanto non accadesse nel precedente mondo meccanico.

Oggi tuttavia l’idea di villaggio, assieme a quella di comunità (community), è potentemente entrata a far parte del lessico dell’innovazione capitalistica, per reintrodurre un’idea di legame sociale caldo in un mondo reso glaciale dalla digitalizzazione capital-oriented. Non solo le comunità dei social media, ma anche nuovi quartieri high-tech come Cloud valley[7], a Chongqing, in Cina, un quartiere interamente gestito da Intelligenza Artificiale, dove in qualsiasi bar si potrà vivere l’esperienza dell’essere riconosciuti dal barista come nel bar di paese, perché il barista è un robot con una sofisticata tecnologia di riconoscimento facciale[8]. La stessa idea della 15 Minutes City[9] diventata famosa con la pandemia, sia detto per inciso, rimanda a un’idea del villaggio.

Cloud Valley viene progettata da Terminus, azienda fondata nel 2015 da Victor Ai. La compagnia sviluppa quelle che, con un lessico oggi molto in voga, definisce come smart solutions (smart buildings, smart communities, smart retail, etc.), mentre si specializza in  AI CITY usando il suo TACOS (Terminus AI CITY Operating System), un sistema di management urbano che lega robotica, prodotti IoT (Internet of Things) e strumenti di urban security. Rimandano all’etimologia stessa del termine terminus, la nuova urbanità della compagnia Terminus oscilla tra l’afflato utopico che proiettano i suoi rendering e la distopia fantascientifica post-esotica di Termius radioso[10], il kolchoz dove la vita continua a scorrere intorno a una pila atomica sprofondata nel terreno nell’universo allucinato descritto dallo scrittore Antoine Volodine in un mondo contaminato, reso invivibile dalle esplosioni di reattori nucleari impazziti, orgoglio di una Seconda Unione Sovietica sull’orlo dell’abisso.

La smart city è l’avatar urbano del cosiddetto platform urbanism, di cui oggi il metaverso rappresenta il frame tecnologico emergente (di cui stanno cercando di appropriarsi le grandi multinazionali, come il Meta di Facebook). Come nella precedente cerchia, si tratta anche qui di lavorare sulla giustapposizione tra gli spazi digitali e gli spazi urbani, laddove “le tecnologie della smart city […] stanno già trasformando il modo in cui lo spazio pubblico è progettato e amministrato, come vengono gestiti il lavoro e i lavoratori, come vengono controllati i quartieri e le comunità”[11]. Alle nostre latitudini esistono molte critiche a queste trasformazioni, purtroppo per lo più davvero parziali, limitate alla questione del controllo e della limitazione della privacy, e spesso viste come modelli applicati per lo più in altri contesti come quelli asiatici. Tuttavia questa forma di tecno-politica e di automatizzazione dell’urbano non può essere così limitata. Esistono certamente esempi da indagare, come ad esempio il City Brain Lab di Alibaba, che sta sperimentando in numerosi scenari (Hangzhou, Suzhou, Shanghai, Macao, Malesia, etc.) “nuove infrastrutture per città future usando dati e aprendo ‘pipeline of city data’ […] per risolvere problemi di trasporto, sicurezza, costruzioni, pianificazione, etc.” [12]. Ma questo sistema di intelligenza urbana non sta emergendo anche nei nostri territori?

Terza cerchia

Nell’esposizione Into the Amazon Box alla Haus der Statistik di Berlino[13] (2020) avevamo introdotto l’idea di una specifica “intelligenza urbana” di Amazon. Amazon infatti, a differenza dei vari attori istituzionali su più livelli che governano i territori, ha una approfondita conoscenza di questi ambienti e dei cittadini che li popolano, e una capacità “unitaria” di ordinare questa conoscenza. Mentre infatti la capacità di pianificazione urbanistica (per motivi ideologici o di assenza di strumenti e risorse) è per lo più evaporata negli ultimi decenni dalle mani delle amministrazioni pubbliche, Amazon ha una crescente capacità di produrre un proprio piano urbano. Articola infatti una geografia interconnessa di grandi e piccole infrastrutture, legando grandi magazzini (Fulfillment Center) a piccoli hub, fluidificando grandi snodi logistici con la disseminazione di locker in vari punti delle città. Garantisce una progettazione che dalla logistica globale passa senza soluzione di continuità alla last mile logistics che ha definitivamente “trionfato” con l’esplosione dell’e-commerce in pandemia. Per garantire questo complesso assemblaggio di infrastrutture, eterogenee forme di mano d’opera, macchine, algoritmi, Amazon si muove in un modo che ricorda il The Stack di Benjamin Bratton (MIT Press, Boston, 2016), agisce simultaneamente come una pila di differenti livelli.

Amazon guarda al territorio come se fosse liberamente malleabile, riprogrammabile a suo piacimento, surfando sui dislivelli tra le proposte di esenzione fiscale tra i vari Stati, mettendo in concorrenza le amministrazioni locali per farsi garantire maggiori vantaggi, facendo intensa attività di lobbying e propaganda, sfruttando il suo potere economico globale nei confronti degli attori locali.  Indubbiamente Amazon ha una grossa capacità, come tutte le piattaforme, di “adattarsi al locale”, di essere resiliente per usare un linguaggio à la page. Questo tuttavia potrebbe essere più che altro un carattere di tipo “tattico”, laddove piuttosto la strategia di Amazon pare quella di riprogrammare il territorio tutto per farne il suo hub[14]. Nel precedente incontro[15] parlavamo della gameification applicata da Amazon a partire dall’immagine dei suoi magazzini come grandi Tetris dal vivo e ricordando che Amazon, al di là della sua narrazione sull’automazione, più che automatizzare la produzione robotizza la forza-lavoro. Discorso analogo si potrebbe fare sull’urbano.

Ma non è certamente solo Amazon a promuovere, in nuce, questo progetto. Stephen Goldsmith (ex sindaco di Indianapolis) e Neil Kleiman (direttore dell’NYU/Wager Innovation Labs) hanno pubblicato nel 2017 un libro dall’intrigante titolo “A New City O/S. The Power of Open, Collaborative, and Distributed Governance” (Booking Institution Press, Washington). In realtà sin dalle prime battute il libro non fa che replicare una trita lettura neoliberista sul fatto che i governi (locali) siano un blocco allo sviluppo e che la soluzione potrebbe essere una svolta tecnocratica applicando un nuovo O/S (Operating System) alle città. L’invito dunque è a non comprare questo libro. Tuttavia, può essere utile leggere un articolo che gli autori hanno scritto l’anno successivo per promuoverlo: “Cities Should Act More Like Amazon to Better Serve Their Citizens”[16]. Qui si sostiene che l’esperienza di shopping garantita da Amazon, che è simple and seamless, dovrebbe essere presa come modello in quanto “public sector environments […] share common elements with the retail one: delivering a crucial product or service to a person who needs it”.

Questa idea di un governo logistico del territorio e degli individui si sviluppa dunque attraversando differenti attori e culture politiche, in tipico stile da Californian Ideology[17]. Aggiungiamo che se si osserva l’enorme produzione di brevetti della Amazon Technologies Inc. (seimila nell’ultimo decennio), molti di essi sono una presenza fissa sulle riviste di design. Sembra di essere finiti in un mondo alla Archigram fatto di città ambulanti, dirigibili e megastrutture gonfiabili. In questo mondo amazonico sono previsti centri di smistamento multilivello con droni; magazzini robotici mobili; mobili in realtà aumentata; centri dati gonfiabili; strutture di magazzini sottomarini e volanti; centri dati infinitamente espandibili; manifatture di abbigliamento on demand, negozi automatizzati con sistemi di riconoscimento facciale, fino all’idea ricorrente della consegna con droni.

Questi brevetti trasmettono l’idea del futuro urbano automatizzato, fanno intravedere il futuro automatizzato che Amazon mira a creare, un mondo a sé, una totalità, un mondo che si sta spostando dalle periferie invisibili delle nostre città – gli spazi astratti della logistica e dei magazzini anonimi – in proposte che raggiungono il centro dello spazio urbano quotidiano. Se dobbiamo leggere “una città come qualcosa di mediato attraverso una serie di salti scalari, che incorporano sia il corpo umano che le connessioni globali, le ambizioni urbane di Amazon possono essere lette in una luce simile”[18].

Cosa esce dall’imbuto?

Nella metafora che abbiamo adottato in questo scritto, abbiamo parlato dei tre livelli di un imbuto per ripercorrere un tema di carattere storico-teorico, o se vogliamo di carattere ermeneutico, sulla costituzione dell’urbano, considerandolo come ambiente costruito dall’umano e dunque come tecnologia in sé.

Abbiamo quindi preso in considerazione la declinazione più recente di questa problematica, ragionando di urbanesimo high tech, smart city, automazione urbana, e siamo giunti nella parte bassa dell’imbuto discutendo di come Amazon configuri oggi una specifica declinazione di questi temi.

Per concludere è tuttavia necessario sottolineare come questa trattazione abbia seguito sostanzialmente una faccia, la sfera se vogliamo più visibile dell’imbuto. L’urbano, così come la tecnologia, rimandano infatti un’immagine di loro stessi neutrale, o meglio neutralizzata, il freddo prodotto di una progettazione. Tuttavia essi sono sempre la condensazione storica di rapporti di forza, lotte, conflitti, antagonismi.

La Cloud metropolis è dunque sì una “forma” tecno-politica che, come un imbuto, incanala i flussi. Ma è una forma contingente, instabile, continuamente attraversata da débordement, frizioni, rotture. In altre parole, e per rimanere nella metafora, ciò che entra, attraversa ed esce dall’imbuto non è pre-determinabile e continua a poter prendere direzioni autonome e impreviste.

Nel corso del seminario ci piacerebbe dunque ragionare anche della dimensione del conflitto che si definisce nelle attuali trasformazioni urbane, del suo continuo presentarsi come battlefield[19]. Ci interessa in altre parole sondare la Cloud metropolis emergente anche a partire dalle lotte che la costituiscono nonché dai suoi possibili punti deboli.

Possiamo adottare uno sguardo contro-logistico su queste trasformazioni? “Il sistema emergente delle supply chain just-in-time, sempre più guidato in forma digitale, è concentrato in ‘nodi’ situati ai bordi delle grandi aree metropolitane – in quanto dipendono dalle grandi concentrazioni di lavoro sottopagato ivi collocate. Questi cluster logistici e le loro connessioni sono i vettori portanti delle aziende e delle industrie più importanti, e rappresentano i punti deboli per il grosso potere di interruzione che in essi viene determinandosi”[20]. Per richiamare un vecchio slogan, quali sono i potenziali di autonomia oggi, le possibili linee di frattura, tra cloud e quartiere?


[1] Vedi On Platforming. Notes for Navigating Contemporary Hyper-Urbanscapes: http://www.intotheblackbox.com/articoli/on-platforming-notes-for-navigating-contemporary-hyper-urbanscapes/

[2] Le foto sono tratte da: https://www.expo2020dubai.com/en/business/partners/terminus

[3] Lowis Wirth, L’urbanesimo come modo di vita (1938), Armando Editore, Milano, 1998, p. 90.

[4] Lewis Mumford, The highway and the city, Harcourt, New York, 1953.

[5] Tung-Hui Hu, A Prehistory of the Cloud, MIT Press, Boston, 2015, p. 50.

[6] Marshall McLuhan, Understanding Media: The Extensions of Man, MIT Press, Boston, 1994.

[7] Vedi ad es. Luca Zorloni, In Cina una startup vuole costruire una smart city governata dall’intelligenza artificiale: https://www.wired.it/economia/start-up/2021/02/18/cina-startup-smart-city-robot-intelligenza-artificiale-terminus/

[8] Si veda in proposto Simone Pieranni, La Cina nuova, Laterza, Roma-Bari, 2021, in part. pp. 84 e ss.

[9] Vedi Carlos Moreno, The 15 minutes-city: for a new chrono-urbanism! – https://www.moreno-web.net/the-15-minutes-city-for-a-new-chrono-urbanism-pr-carlos-moreno/; The Plan, 15 Minutes city, Milano punta sul quartiere per un future senza periferie: https://www.theplan.it/whats_on/15-minutes-city-milano-punta-sul-quartiere-per-un-futuro-senza-periferie; https://www.15minutecity.com.

[10] Antoine Volodine, Terminus radioso, 66thand2nd, Roma, 2016. Terminus è anche il pianeta remoto e quasi sconosciuto, destinato (grazie agli strumenti della psicostoria) nella Trilogia galattica di Asimov a ospitare il germe del nuovo impero dopo la caduta del Grande impero galattico.

[11] Aaron Shapiro, Design, Control, Predict: Logistical Governance in the Smart City, University of Minnesota Press, 2020.

[12] Vedi: https://damo.alibaba.com/labs/city-brain

[13] Vedi: http://www.intotheblackbox.com/english/into-the-amazon-box/

[14] Vedi https://www.infoaut.org/culture/il-divenire-hub-della-citta-globalizzata

[15] Vedi http://www.intotheblackbox.com/events/working-class-cyborg/

[16] Vedi https://nextcity.org/urbanist-news/cities-should-act-more-like-amazon-to-better-serve-their-citizens. Dalla lettura di questo articolo è nato anche un libro, che a differenza di quello dei due autori può valer la pena di leggere: Mark Graham, Rob Kitchin, Shannon Mattern and Joe Shaw (eds), How to run a city like amazon and other fables, London, Meatspace Press, 2019.

[17] Cfr. Richard Barbrook and Andy Cameron, The Californian Ideology, 1995: https://www.metamute.org/editorial/articles/californian-ideology

[18] Vedi Matthew Stewart, Amazon Urbanism: Patents and the Totalizing World of Big Tech Futures: https://failedarchitecture.com/amazon-urbanism-patents-and-the-totalizing-world-of-big-tech-futures/

[19] Vedi Platform Urbanisation as a Battlefield: http://www.intotheblackbox.com/articoli/platform-urbanisation-as-a-battlefield/

[20] Kim Moody, On New Terrain. How Capital is Reshaping the Battleground of Class War, vedi https://www.infoaut.org/culture/il-nuovo-terreno-della-lotta-di-classe


Letture consigliate
M. Graham, R. Kitchin, S. Mattern and J. Shaw (eds), How to Run a City Like Amazon, and Other Fables, Meatspace Press, 2019
S. Barns, Platform Urbanism. Negotiating Platform Ecosystems in Connected Cities, Palgrave, 2020
P. Moertenboeck e H. Mooshammer, Platform Urbanism and Its Discontents, nai010 publisher, 2021
Amazon Urbanism: Patents and the Totalizing World of Big Tech Futures

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