Eventi, Global Reset

Imperi commerciali: il potere delle Big Tech e il ruolo della finanza

Quarto seminario del ciclo Global Reset: scenari dal disordine planetario
Introduce e coordina: Maurilio Pirone (Into the Black Box)
Con: Lucrezia Goldin (giornalista, China Files) e Christian Marazzi (economista)


Finanza e piattaforme digitali sono stati indubbiamente due degli assi che hanno maggiormente determinato i processi globali negli ultimi anni.

Le cosiddette Big Tech – tanto cinesi quanto statunitensi – si sono sempre più affermate come infrastrutture fondamentali per il funzionamento delle nostre società. La loro proiezione globale ha striato la territorialità degli Stati e degli spazi urbani, contribuendo alla costruzione di una connettività planetaria. Allo stesso tempo, il potere da loro acquisito ha spinto molti paesi a rivedere il loro modello di governance del digitale che, nel frattempo, si è sempre più affermato come uno degli assi più caldi nella multipolarità competitiva del nostro presente.

Al pari delle piattaforme digitali, anche la Finanza condivide la stessa proiezione globale. Ne abbiamo visto gli effetti, ad esempio, con la crisi del 2007/2008 che ha certificato l’erosione dell’egemonia americana nel sistema-mondo. E ne vediamo anche oggi la portata di fronte al cambio di paradigma delle Banche Centrali che hanno messo fine alle politiche di tassi d’interesse bassi e quantitative easing nel tentativo di contenere la crescente inflazione. Il tutto, probabilmente, all’interno di una crescente de-dollarizzazione del mercato mondiale. Ma è la Finanza stessa ad aver subito profondi mutamenti grazie all’affermazione delle tecnologie digitali i cui effetti sono, ad esempio, ben visibili nel fenomeno delle criptovalute e nel tentativo degli Stati di regolarne l’uso.

In che modo dunque gli imperi commerciali delle Big Tech impattano sulla globalizzazione oggi? Le trasformazioni in corso delle politiche e dei prodotti finanziari sono tanto la causa quanto il riflesso di un cambiamento degli equilibri del sistema-mondo?



Partiamo dalla cronaca: SVB e altre due banche US sono appena fallite in pochi giorni (Silvergate e Signature). Si tratta del secondo più grande crac di una banca commerciale nella storia americana. E il maggiore dal 2008. La SVB era la banca delle start-up californiane, il suo crac – al di là delle specifiche motivazioni – è esemplificativo del forte legame fra finanza e innovazione digitale. Il terremoto SVB non implica solo il rischio di allargare le crepe nel sistema finanziario internazionale, già sotto stress, ma anche un problema immediato per tutte le aziende tech US nel pagare stipendi e investimenti. Di più, è il segnale simbolico di una crisi del settore tecnologico che va avanti da mesi. Ci riferiamo ai licenziamenti occorsi in tutte le più grandi aziende del settore, sono stati lasciati a casa più di 200mila dipendenti in poco tempo.

Queste aziende avevano trainato la ripresa US dopo la crisi del 2007. Come in tutte le crisi, una delle strategie del Capitale per far ripartire i processi di accumulazione è quella di investire sull’innovazione e aumentare la produttività – plusvalore relativo. La crescita delle cosiddette piattaforme coincide con la ripresa post-crisi 2007: le aziende della Silicon Valley sono investite da flussi di capitale che ne permettono l’espansione prima ancora di aver raggiungo il pareggio di bilancio o aver consolidato i loro modelli di business (growth before profit). Questa espansione è favorita dalla disponibilità di liquidità grazie ai bassi (quasi nulli) tassi di interesse che le banche centrali hanno garantito per anni e dalla ricerca da parte del venture capital di investimenti ad alta redditività dopo lo stop al mercato dei subprime.

Questa situazione ha permesso alle cosiddette piattaforme digitali di affermarsi come le nuove infrastrutture del nostro presente, capaci di inglobare sempre più aspetti della riproduzione sociale. Allo stesso tempo, proprio le piattaforme hanno consentito un’espansione dei processi di finanziarizzazione della nostra vita. Il legame fra i due settori – finanza e digitale – è tale che ormai si sovrappongono in molte attività. Pensiamo alle criptovalute.

Ormai è chiaro che questa ondata di licenziamenti non era altro che il presagio di una contrazione su più larga scala dell’economia globale la cui soluzione, ancora una volta, sembra essere quella di una socializzazione del rischio e delle perdite (inflazione, salvataggi tramite intervento pubblico). Come ha scritto Stefano Feltri (Domani, 14 marzo 2023), “I mercati sono stati i principali beneficiari della stagione del quantitative easing, e ora che la festa stava finendo di nuovo imporranno le loro esigenze a scapito dell’economia reale. L’amministrazione Biden promette di non far gravare il crac di Silicon Valley Bank sui contribuenti, ma intanto garantisce i depositi anche sopra la soglia assicurata di 250.000 dollari. Il messaggio è chiaro: nel 2008 si salvavano le banche troppo grandi per fallire, oggi si salvano i clienti troppo ammanicati per soffrire. La gente normale perde sempre: pagherà il conto delle politiche anti-inflazione, che soffocano la domanda, se si difende la stabilità economica, cioè dei prezzi, mentre i benefici delle politiche espansive sono andati soprattutto al settore finanziario. E paga ancora di più se invece delle politiche anti-inflazione banche centrali e governi anteporranno la stabilità del settore finanziario che, ha beneficiato dell’espansione monetaria e ora rifiuta di pagare il conto della stretta. Ci ricordiamo il 2008, ma non abbiamo davvero imparato dai nostri errori. Stiamo ripetendo il copione con le criptovalute al posto dei mutui subprime”.

Le tensioni che attraversano finanza e hi-tech si sommano ad altre turbolenze la cui convergenza e interazione danno forma alla policrisi del nostro tempo. In questo seminario abbiamo parlato spesso del problema del governo politico del mercato mondiale, evidenziando come alla crisi dell’egemonia americana corrisponda al momento una ridefinizione degli assemblaggi globali e una rinnovata competizione strategica fra Stati. Finanza e digitale diventano terreni principali di questo scontro proprio in virtù del ruolo che hanno acquisito in questi anni.

Secondo il Financial Times, gli investitori coinvolti nel crac SVB avrebbero detto ai responsabili del Tesoro “that it would not only have big economic repercussions, with companies struggling to write paycheques, but also that an outright failure would have geopolitical ramifications. “The theme was: ‘this is not a bank’,” said one person involved in the lobbying campaign. “This is the innovation economy. This is the US versus China. You can’t kill these innovative companies.”

Sempre all’interno del nostro seminario, abbiamo provato a riprendere la distinzione fra sovranità e capitale, territorialità e spazi di accumulazione. Le piattaforme costituiscono, abbiamo detto, delle infrastrutture della riproduzione sociale, sono degli imperi commerciali che hanno una proiezione globale. Imperi commerciali perché il loro potere viene principalmente dalla loro economia che le trasforma in soggetti decisionali anche a livello politico. Proiezione globale perché la loro attività si estende su geografie internazionali. In questo senso, da una parte competono tra di loro per il monopolio dei mercati. Dall’altra, però, entrano in tensione con gli Stati laddove le loro operazioni finiscono per erodere parte del potere governamentale dei primi. Questa sovrapposizione di prerogative fra operazioni dei capitali hi-tech e statualità, proiezione globali degli imperi commerciali e multipolarità competitiva, si riverbera nelle minacce di decoupling fra Occidente e Oriente (Cina, Russia) così come nelle politiche industriali di cosiddetto re-shoring (pensiamo al Chip Act e all’Inflation Reduction Act di Biden).  

Un processo simile attraversa la finanza. I mercati finanziari, infatti, sono mercati fortemente integrati la cui portata complessiva non sembra essere stata intaccata dalla pandemia e dalla guerra in Ucraina. Allo stesso tempo, però, si registra una crescente tensioni all’interno degli stessi per via del cambio delle politiche delle Banche centrali – fine del QE e rialzo dei tassi d’interesse nel tentativo di contenere l’inflazione – che in questi anni hanno svolto sempre di più una funzione regolativa – vedi la vicenda delle criptovalute e la costruzione delle CBDC. La connessione fra instabilità finanziaria e tensioni geopolitiche è testimoniata, fra le altre cose, dal crescente tentativo di sganciarsi dal dollaro come moneta di riferimento da parte di molti paesi.  

Una delle nostre ipotesi è, dunque, quella che un cambio di egemonia su scala globale – da quella US a quella cinese direbbe Arrighi – oggi sia più complicato proprio per le caratteristiche assunte da finanza e piattaforme. Di più, l’instabilità politica dei nostri tempi, probabilmente, alimenterà e sarà alimentata dall’instabilità economico-finanziaria che sembra sempre più palese.

In che modo gli Stati dipendono dalle infrastrutture digitali e dai meccanismi finanziari?
È possibile immaginare una ri-territorializzazione dei flussi digitali e finanziari?
È possibile immaginare forme di decoupling tecnologico e finanziario? Quali spinte alla multipolarizzazione dei centri finanziari e digitali possiamo identificare?
Ci sono tensioni fra il mondo finanziario e quello degli imperi commerciali, fra la contrazione delle politiche monetarie e l’espansione delle infrastrutture digitali?


Per approfondire:

Lucrezia Goldin, Arrivano «i trasporti della possente nazione». Pcc alla guida del mondo tech

Lucrezia Goldin, La tech war con gli Usa obbliga all’autarchia

Christian Marazzi, Diario della crisi | Chi paga l’inflazione da profitti?

Christian Marazzi, Diario della crisi | Il collasso del paradigma postfordista

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