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Il campo di battaglia delle piattaforme

Pubblichiamo la traduzione del saggio di Into the Black Box Platforms as Battlefield: Digital Infrastrucutres in Capitalism 4.0.
Il saggio è stato pubblicato sul numero 120(4) di South Atlantic Quarterly curato sempre dal gruppo di ricerca. Qua è possibile consultare l’indice.


Le piattaforme sono un fenomeno globale che si è sviluppato rapidamente in soli dieci anni (Helmond 2005; Gurumurthy, Bharthur, Chami 2019). Subito dopo lo scoppio della crisi finanziaria del 2007/2008, infatti, il capitalismo delle piattaforme (Srnicek, 2016) ha progressivamente colonizzato le forme del lavoro e del consumo parallelamente ad un altro processo di innovazione tecnologica applicato alla produzione, la cosiddetta Industria 4.0 (Schwab 2016) con la quale condivide l’uso massivo di tecnologie digitali, una razionalità logistica, l’adozione di «logged labor» (Huws 2016). Si tratta di processi che non stanno trasformando solamente l‘economia, ma anche le forme di vita, le relazioni sociali, gli spazi della politica. Allo stesso tempo, crediamo si debba mettere in questione la retorica del carattere dirompente delle piattaforme laddove le stesse non nascono in un vuoto spazio-temporale ma si pongono piuttosto come punto di convergenza fra una serie di tendenze globali di lunga durata.

A livello planetario, infatti, stiamo assistendo alla ristrutturazione di molti processi produttivi a partire dall’adozione di innovazioni tecnologiche: la spinta alla digitalizzazione ha trovato un decisivo slancio con lo scoppio della pandemia, basti pensare alla rapida diffusione dello smart working in sostituzione del lavoro da ufficio o dei servizi tramite piattaforma al posto dei negozi di vicinato. Le tecnologie digitali acquisiscono un rinnovato valore irenico rispetto alla possibilità di ricostruire una nuova normalità (McKinsey, 2020). Al lavoro di piattaforma – ovvero svolto su o tramite software installati su smartphone o computer – va affiancata sempre più una piattaformizzazione del lavoro, ovvero l’adozione di caratteristiche del lavoro di piattaforma da parte di altre attività produttive (si pensi alla retorica dell’auto-imprenditorialità, oramai presente in tutti i tipi di professione). Detto altrimenti, il capitalismo di piattaforma sta acquisendo sempre più un ruolo egemone all’interno dei processi di valorizzazione, tanto che potremmo dire di vivere oramai nell’era delle piattaforme. Lo sviluppo e l’imposizione sempre maggiore di questo paradigma travalica i confini delle attività produttive tout court e invade i tempi e le forme di vita, soprattutto all’interno degli spazi urbani che sono i luoghi all’interno dei quali la presenza e gli effetti delle piattaforme digitali si fanno più evidenti.  

La sovrapposizione fra dinamiche produttive e dinamiche riproduttive non è però di certo qualcosa di nuovo e non bisogna cadere nella tentazione di conferire alle piattaforme un carattere totalmente innovativo – rimandiamo, ad esempio, ai lavori di Mezzadra e Neilson (2013, 2015) per quanto riguarda i confini sfumati fra tempi di vita e di lavoro, estrattivismo e mercificazione. Le infrastrutture digitali come le piattaforme si inseriscono all’interno di una più generale tendenza verso la messa a valore della riproduzione sociale (Huws 2003, 2014, 2017; Armano, Murgia, Teli 2017) e, allo stesso tempo, ne estendono largamente il raggio d’azione. Anche in questo, il contesto pandemico sta contribuendo nel favorire una nuova ondata di mercificazione della riproduzione sociale tramite l’uso di tecnologie digitali: molti servizi di cura – precedentemente strutturati perlopiù secondo una divisione sessuale del lavoro – sono sempre più inglobati all’interno delle piattaforme e delle loro modalità di ristrutturare i processi produttivi. Allo stesso tempo, le piattaforme assorbono alcune caratteristiche del lavoro di cura – ad esempio, l’informalità del rapporto lavorativo – e ne estendono la portata ad altri segmenti di forza-lavoro.

Inoltre, digitalizzazione dei processi produttivi non vuol dire smaterializzazione del lavoro. Piuttosto, il capitalismo delle piattaforme opera una generale de-territorializzazione o ri-territorializziamone dei processi produttivi: alcune funzioni si spostano all’interno di spazi digitali (non solo quelle legate al controllo della forza-lavoro, ma anche molte attività di management), mentre altre si ricollocano all’interno di spazi fisici più o meno definiti (dai data center alle click farm. È però negli spazi urbani che gli effetti delle piattaforme – dall’espansione di servizi digitali alle formazioni di contingenti di forza-lavoro, passando per i confini mobili fra produzione, circolazione e consumo – si fanno particolarmente tangibili ed evidenti. Senza rinunciare al principio di non scalarità proprio di un capitalismo variegato dal punto di vista degli spazi geografici e senza concepire la città in termini eccessivamente definiti (Castells 1999; Brenner 2013; Brenner and Schmid 2014, 2015; Merrifield 2013), consideriamo gli spazi urbani delle arene all’interno delle quali le piattaforme agiscono come infrastrutture (Van Dijck, Poell, de Waal 2018) che non si limitano a favorire l’incontro fra domanda e offerta o la trasmissione di dati, ma producono effetti concreti in termini di abitudini, bisogni e conflitti.  Detto altrimenti, la «convergenza contemporanea fra piattaforme e infrastrutture» (Plantin et al. 2018: 301) va analizzata anche e soprattutto nei termini degli effetti soggettivi che producono, non solo come dispositivi di assoggettamento ma anche come posta in palio all’interno di pratiche di soggettivazione. La pretesa neutralità dei processi di innovazione tecnologica deve lasciare il passo a un’analisi dei rapporti sociali che si determina dentro e contro le piattaforme.

Con l’intento di contribuire a un più generale processo di sviluppo di una critica delle piattaforme – che mette insieme lotte operaie, contro-condotte sociali, con-ricerca, nuove istituzionalità – ci concentreremo su tre nodi: le piattaforme come infrastrutture, le piattaforme come campo di battaglia e una politica delle contro-piattaforme.  

Piattaforme come infrastrutture

Nella sua Actor-Network Theory, Bruno Latour ha proposto una teoria del rapporto fra tecnologie e oggetti per comprendere pienamente il comportamento sociale dell’essere umano. Secondo Latour, le cose e, più in generale, gli elementi non-umani, sono una parte irriducibile delle persone e della società, le «missinig masses» che la attraversano e determinano: «The paradox of technology is that it is thought to be at one of the extremes, whereas it is the ability of the engineer to travel easily along the whole gradient and substitute one type of delegation for another that is inherent to the job» (Latour, 2008, p. 166). Declinate in questi termini, le tecnologie possono dunque essere lette nel loro carattere sociale che del resto è anche sempre e inevitabilmente un carattere politico. Le piattaforme, ci sembra, rappresentano in maniera lampante questa prospettiva. Ben lontane dall’essere “semplici” aziende private o marketplace, esse assumono piuttosto la forma di vere e proprie “infrastrutture digitali non neutrali” che determinano relazioni sociali, politiche ed economiche.

Il cuore della global society contemporanea, il suo centro connettivo, è indiscutibilmente digitale. Piattaforme come Google, Facebook, Amazon, Microsoft e Apple (GAFAM), ma anche Alibaba, Tencent o ByteDance, sono le strutture su cui si articola il web. Una galassia altamente eterogenea che deve essere oggi analizzata a partire da una prospettiva in grado di de-occidentalizzare lo sguardo per cogliere la sua emersione simultanea a più latitudini (Davis and Xiao, 2021). Grazie ad esse, una moltitudine di quelle che Van Dijck, Poell e de Waal (2018) chiamano «predatory platforms» operano e prosperano occupando spazi digitali e sociali e di mercato. Nato coi tratti spesso utopistici di luogo libero e finanche anarchico, lo spazio di Internet sta diventando dunque sempre più normato e infrastrutturato, utile al capitale per espandere quelle che Mezzadra e Neilson chiamono «the frontiers of its valorization» (2019, p. 65). Si tratta di uno spazio, quello digitale, in grado di ibridarsi e permeare altre spazialità. In questo senso, le piattaforme operano alla ricerca e alla creazione di nuovi spazi e nella direzione di estrarre valore dal campo delle relazioni sociali che colonizzano e trasformano. Nello spazio digitalizzato – fatto analogicamente da codici, cavi oceanici, server, hard disk ecc. – le piattaforme stanno diventando egemoniche e questa egemonia si riflette anche nella loro capacità di determinare le trasformazioni degli spazi fisici. Inoltre, stanno sempre più esplicitamente assumendo carattere politico: come tutte le infrastrutture, anche le piattaforme “have politics”.

Gli studi sulla politicità delle infrastrutture sono qualcosa di ormai acquisito. Un testo importante in questo senso è certamente quello di Langdon Winner, pubblicato nel 1980 sulla rivista Daedalus (MIT press) e intitolato Do Artifacts have politics?. Alla domanda di ricerca presente nel titolo, la risposta di Winner era evidentemente sì, e per sostenerla portava l’esempio particolarmente significativo di Robert Moses, urbanista e designer della moderna New York. Nella sua pianificazione della Grande Mela, Moses progettò i sottopassaggi che conducevano alle spiagge di Long Island talmente bassi che gli autobus non potevano attraversarli. I mezzi di trasporto pubblico, utilizzati soprattutto dalla working-class e dalle classi meno abbienti, non potevano così accedere alle residenziali zone di Long Island, il cui accesso era sostanzialmente riservato a chi possedeva un’automobile. Altro esempio piuttosto noto di uso politico delle infrastrutture è quello del Barone von Haussmann il quale, su incarico di Napoleone III, realizzò un rinnovamento drastico di Parigi tra gli anni Cinquanta e Sessanta dell’Ottocento. Strade enormi e boulevard vennero calate sull’antico centro medievale. Nuove vie di comunicazione raddrizzarono letteralmente i contorti vicoli cittadini che avevano dato riparo alle rivolte del 1848: la pianificazione di Haussmann aveva il dichiarato intento di modificare il terreno urbano manifestatosi come incubatore di insorgenze cittadine e favorendo vie d’accesso più adatte alla mobilità delle merci nonché degli eserciti statali.

Se i due modelli appena citati hanno carattere prettamente storico legato alla pianificazione urbana delle metropoli, non mancano certo i casi contemporanei che hanno mostrato come i progetti infrastrutturali contengano una visione politica, che spesso genera conflitti: dall’opposizione indigena alla Dakota Access Pipeline negli USA e alla Canadian Coastal GasLink Pipeline, fino ad arrivare alle lotte contro progetti di treni ad alta velocità o gasdotti (No Tav e No Tap) in Italia, passando per le molteplici frizioni che accompagnano la definizione della Nuova via della Seta cinese o alla molteplicità di piani di infrastrutturazione dell’America Latina inseriti nel mastodontico progetto IIRSA. L’antropologo Brian Larkin è illuminante in questo senso: «As several scholars have pointed out, liberalism is a form of government that disavows itself, seeking to organize populations and territories through technological domains that seem far removed from formal political institutions […]. Even the free flow of goods that constitutes a laissez-faire economy rests on an infrastructural base that organizes both market and society […]. Infrastructures are interesting because they reveal forms of political rationality that underlie technological projects and which give rise to an “apparatus of governmentality”» (Larkin, 2008, p. 329).

Leggere attraverso questa prospettiva genealogica le piattaforme come infrastrutture ci sembra un’utile chiave interpretativa sia per indagare il platform urbanism (Barns, 2020) che, più in generale, per inquadrare il loro ruolo all’interno dell’emergente “capitalismo 4.0,” ovvero quella tipologia di capitalismo emersa dopo la crisi del 2007/8 . Ci sembra infatti che la sua cifra specifica stia nella costruzione di un nuovo ambiente urbano-industriale in cui si assemblano differenti forme di sfruttamento e accumulazione. Le piattaforme in effetti definiscono cicli di “accumulazione originaria” nel loro catturare il valore della cooperazione nelle metropoli, ma al contempo esprimono forme di sussunzione “formale” nel coordinare in modo esogeno una forza-lavoro “artigianale” che usa proprio mezzi di produzione, e producono una sussunzione “reale” nell’organizzazione algoritmica del lavoro. Le infrastrutture del nuovo ambiente 4.0 in costruzione vedono nelle piattaforme digitali l’elemento simbolico e più “tangibile”, ma vanno comprese all’interno del più ampio processo di cambiamento che va dalla robotica più evoluta ai big data, dal cloud all’Internet of Things, dalla realtà virtuale all’Intelligenza Artificiale, e convergono nel ridefinire i modi in cui si riproducono i cicli sistemici. Lo scenario di un’ecologia che integra umano e macchine nell’orizzonte digitale e bio-chimico ridefinisce le logiche organizzative del lavoro e del sociale, inserendo elementi inediti all’interno di processi di lungo corso.

Proponiamo, pertanto, di collocare il passaggio attuale in termini materialistici come l’emersione di una nuova dimensione di divisione del lavoro nella storia del capitalismo. Il tutto provando a evitare il rischio teleologico degli stadi di sviluppo, ma cercando di cogliere come nel mescolarsi di differenti paradigmi sia possibile individuare elementi di trasformazione. In questo senso l’evoluzione tecnologica, che è generalmente il filtro privilegiato per guardare al passaggio in atto, è solo un punto di osservazione, e se vogliamo anche secondario, rispetto al più generale processo di astrazione del lavoro e della sua divisione (e dei suoi antagonismi) entro una macchina sociale sempre più complessa. Oppure, seguendo un’altra prospettiva, potremmo dire che il salto tecnologico (leggasi “macchine e capitale fisso”) è vieppiù assorbito nel capitale variabile (la forza lavoro), generando tendenze ambivalenti che andremo ad analizzare. O meglio: certe funzioni macchiniche sono assorbite dai soggetti così come certe attività umane sono macchinizzate. Ancora da una prospettiva ulteriore: siamo di fronte al cantiere di una metropoli planetaria definita da livelli crescenti di astrazione e integrazione macchinica, finanziaria, logistica e digitale.

Le piattaforme come campo di battaglia

Approfondiamo gli elementi soggettivi – i rapporti sociali – all’interno dei quali si dà questa riorganizzazione – composizione tecnica – del capitale. Riprendendo un’indicazione metodologica di stampo operaista crediamo che la comprensione di un fenomeno sociale passi anche e soprattutto a) dalle fratture che questo determina b) dal posizionamento dei soggetti che si definiscono all’interno di questa frattura. Detto altrimenti, la crescita delle piattaforme come infrastrutture e il loro potenziale di generalizzabilità a livello globale non è sicuramente un processo neutrale e pacificato ma passa per il confronto e quindi lo scontro con diverse soggettività, siano esse immediatamente collocabili nel raggio d’azione delle piattaforme o indirettamente colpite dalla loro espansione. Proviamo a spiegare questo passaggio da un’ulteriore angolatura. Presentando le piattaforme come infrastrutture ne abbiamo voluto mettere in risalto il carattere eco-sistemico ovvero il fatto che producano degli ambienti sociali all’interno dei quali si definiscono diverse soggettività e forme di potere. Queste soggettività però non sono solo create dalle piattaforme ma possono porsi in maniera attiva – e dunque critica – nei loro confronti. Inoltre, il carattere infrastrutturale delle piattaforme non deve indurci nel considerarle come degli oggetti astratti, ovvero prive di spazialità e temporalità. Le piattaforme si sviluppano entrando in un processo di scambio reciproco con altre temporalità sedimentatesi all’interno di specifiche geografie. L’estrema resilienza delle piattaforme è forse una delle caratteristiche principali di questo modello di impresa che però ci pone allo stesso tempo la questione di come queste spazialità e temporalità interagiscono con esse.  

Qui ci concentreremo sui processi di soggettivazione nei confronti delle piattaforme, provando a schematizzare uno spettro di potenziali relazioni conflittuali che vanno dal rifiuto totale al riconoscimento del loro ruolo. Lungo questo spettro si possono collocare diversi posizionamenti intermedi. Ognuno di questi posizionamenti può essere incarnato da soggetti diversi ognuno dei quali declina le proprie pratiche e i propri obiettivi a partire delle rispettive specificità (sociali, geografiche, etc.) e focalizzandosi su un aspetto particolare delle piattaforme. In via preliminare potremmo individuare quattro posizionamenti principali lungo lo spettro: rifiuto netto, rifiuto moderato, consenso moderato, consenso netto. Al centro dello spettro possiamo collocare il cooperativismo di piattaforma e i conflitti sul lavoro: entrambi condividono lo stesso perimetro all’interno del quale si sviluppano, ovvero il processo lavorativo su piattaforma. Ai due estremi invece troviamo il neo-luddismo di quei soggetti che invece rifiutano le piattaforme in maniera tout court e il socialismo 4.0 di quanti propongono di collettivizzare quelle infrastrutture digitali divenute oramai “essenziali”. In entrambi i casi questi conflitti si sviluppano al di fuori della piattaforma e ne mettono in questione il tipo di esistenza. Analizziamo nel dettaglio questi posizionamenti.

Partendo da quanti sono coinvolti direttamente nel processo lavorativo su piattaforma, possiamo notare come negli anni – da Nord a Sud del globo, dalla Gran Bretagna all’Ecuador passando per Hong Kong – ci sia stato un rinnovamento dell’azione sindacale che ha accompagnato lo sviluppo delle piattaforme e la produzione di specifiche soggettività del lavoro digitale come i rider o i driver. Il primo punto che ci preme evidenziare è che questi conflitti hanno incrinato la retorica dell’imprenditore di sé stesso che solitamente viene utilizzata dalle piattaforme per nominare il lavoro. Secondo questa prospettiva le piattaforme stesse non sono che dei marketplace all’interno dei quali si collocano delle microimprese a carattere prevalentemente individuale. Saremmo, dunque, davanti alla fine del lavoro subordinato e delle forme di sfruttamento che a questo sono state storicamente ascritte; adesso il capitale umano sarebbe libero di valorizzarsi autonomamente e creativamente senza più vincoli disciplinari. Eppure, il lavoro vivo catturato dalle piattaforme non sempre si adegua a questo tipo di prospettiva ma sperimenta forme collettive di organizzazione e di vertenzialità (Hidalgo Cordero and Salzar Daza, 2020). I conflitti sul lavoro mettono a nudo innanzitutto la verticalità della relazione fra lavoro vivo e piattaforme: mentre queste ultime si presentano appunto come spazi di condivisione che operano un ruolo perlopiù di coordinamento e moderazione, i conflitti dei lavoratori di piattaforma puntano prima di tutto a evidenziare il ruolo di potere che queste esercitano e l’asimmetria che si produce in termini di controllo e conoscenza del processo produttivo. Questo tipo di conflittualità – che punta al conseguimento di diritti del lavoro e alla redistribuzione dei profitti – smaschera come la retorica dell’auto-imprenditorialità agisca prevalentemente nei termini di una de-strutturazione del lavoro. Allo stesso tempo il sindacalismo di piattaforma sembra contendere alle piattaforme quello che è l’epicentro del loro potere, ovvero la gestione algoritmica dei flussi. I blocchi e gli scioperi sono leggibili come forme di lotte sulla circolazione che puntano al sabotaggio della catena logistica di informazioni, merci e persone.

Restando sempre all’interno del processo produttivo delle piattaforme, possiamo evidenziare come il movimento cooperativo abbia trovato nuovo slancio proprio all’interno delle forme di impresa digitale. La tradizione cooperativa moderna è nata nell’Ottocento attorno al sistema di fabbrica e al tentativo di democratizzarne la gestione, mettendo nelle mani della forza-lavoro la possibilità di organizzare tanto il processo produttivo quanto la circolazione delle merci e la distribuzione dei profitti. Oggi questa tradizione si rinnova nel tentativo di democratizzare la gestione delle piattaforme attraverso forme collettive e democratiche di impresa così come tramite la gestione aperta e condivisa dei mezzi di produzione, ovvero algoritmi e dati. Il cooperativismo di piattaforma (Scholz, 2016) individua quindi in questo nuovo tipo di infrastrutture un problema quanto una opportunità. Le forme di organizzazione del processo produttivo sono criticate per la loro estrema centralizzazione e opacità, come fanno anche i movimenti sindacali. Allo stesso tempo vengono riconosciute alle tecnologie digitali delle potenzialità in termini di democratizzazione dei processi decisionali e di capacità produttiva. Riassumendo, il problema è quello di cambiare di mano il possesso dell’azienda, dal capitalista alla forza-lavoro. Detto altrimenti, il cooperativismo di piattaforma tenta di recuperare a favore dei lavoratori di piattaforma quella cooperazione sociale che invece la piattaforma assorbe e sottrae.

Al di là dei soggetti posizionati all’interno del processo produttivo (usando una definizione “stretta” di lavoro digitale) possiamo individuare altre due tipologie di conflitto nei confronti delle piattaforme. Potremmo etichettare come forme di neo-luddismo (Jones, 2006) tutte quelle proteste che individuano nelle piattaforme un soggetto invasivo – di un certo settore lavorativo, di uno spazio urbano – da espellere. Dai comitati cittadini anti gentrificazione contro Airbnb (Pinkster and Boterman, 2017; Del Romero Reanu, 2018; Wachsmuth and Weisler, 2018) alle corporazioni dei tassisti contro Uber (Adebayo, 2019), in tutti questi casi la presenza delle piattaforme viene percepita come una presenza esterna e minacciosa. Il rifiuto spesso non è totale e non critica l’innovazione digitale in maniera generale ma esprime piuttosto una logica “not in my backyard”. Uno degli aspetti messi in luce da queste forme di protesta è la moltiplicazione e stratificazione di forme del lavoro all’interno del capitalismo che tra di loro possono non solo convivere ma anche entrare in contrasto. I processi di quella che Marx chiama l’accumulazione primitiva – che definiscono innanzitutto un rapporto soggettivo fra comando e lavoro vivo – non si esauriscono in un momento originario ma si perpetuano all’interno della continua innovazione del modo di produzione capitalistico che può utilizzare specifici segmenti di capitale o forme di vita come frontiere da oltrepassare. Detto altrimenti, le forme della innovazione tecnologica non sono mai generali ma innanzitutto puntuali e nel loro sviluppo creano frizioni, tanto con diverse forme di organizzazione del comando (es. imprese tradizionali del turismo vs AirBnb), quanto con altre soggettività del lavoro (es. tassisti con licenza vs driver di Uber). La transizione diventa dunque un momento all’interno del quale si ridefiniscono i rapporti fra le diverse stratificazioni storico-sociali che non necessariamente scompaiono ma possono trovare diverse forme di gerarchizzazione e coabitazione.

Infine, possiamo individuare in quello che definiamo socialismo 4.0 (Peters, 2020) una riattualizzazione delle istanze di collettivizzazione dei mezzi di produzione proprie della tradizione socialista. Due sono le declinazioni principali di questo posizionamento: nel primo caso si invoca la nazionalizzazione di alcune specifiche piattaforme, nel secondo si propone una più generale collettivizzazione della gestione dei dati. Negli ultimi anni, infatti, sono diverse le richieste avanzate di statalizzazione di alcune piattaforme a partire dal riconoscimento del loro ruolo ormai acquisito in quanto infrastrutture sociali essenziali. Questa rivendicazione mette in luce il crinale fra pubblico/privato – o meglio, la sua disarticolazione – lungo il quale si muovono queste ultime: se da una parte le piattaforme sembrano assumere una funzione pubblica in quanto spazio comune all’interno del quale si sviluppano sempre di più le nostre relazioni sociali, economiche e politiche, dall’altro il regime di proprietà delle stesse resta saldamente ancorato alle forme e prerogative della proprietà privata. Detto diversamente, la capacità di pianificazione sociale ed economica sembra essersi sempre più spostata dalla sfera statale a quella privata delle Big Tech (Morozov, 2020). La questione politica che emerge è dunque la seguente: è giusto che una infrastruttura fondamentale per la riproduzione sociale sia gestita da un soggetto non controllabile e vincolate a logiche diverse da quelle del bene pubblico? Allo stesso tempo le istanze di collettivizzazione possono indirizzarsi non tanto ad una specifica piattaforma ma puntare a quegli asset che determinano il loro rapporto di forza rispetto al lavoro vivo, oltre al fatto di costituire il bene primario sul quale si costruisce la loro ricchezza. Detto altrimenti, nel capitalismo digitale il possesso fisico dei mezzi di produzione fisici è sempre meno centrale rispetto al controllo di alcuni beni immateriali come algoritmi, big data e brevetti. La centralità di questi beni si declina in un’altra forma di socialismo digitale, quello che punta ad una decentralizzazione e democratizzazione nella gestione degli stessi (Morozov, 2020).

Una politica di contro-piattaforma

Ricostruita questa mappatura delle possibili resistenze all’interno di una nuova composizione tecnica del capitale che chiamiamo 4.0, torniamo alla questione più generale di come inquadrare la relazione tra macchine e lavoro, piattaforme e cybertariato. Nel 4.0 è sempre più frequente, infatti, una sorta di indistinzione tra tempo di lavoro e tempo di vita, tra lavoro vivo e lavoro incorporato in macchine (o tra capitale variabile e capitale costante), e in questa direzione ci pare che diventi impossibile discernere tra ciò che è sfruttamento e furto di tempo e ciò che invece è autonomia (sia in atto che in potenza). Per Marx ogni macchina è sempre la ri-territorializzazione di precedenti relazioni di potere. Tanto quanto la divisione del lavoro è plasmata dai conflitti sociali e dalla resistenza dei lavoratori, allo stesso modo procede l’evoluzione tecnologica. Le parti del “meccanismo” sociale “aggiustano” sé stesse alla composizione tecnica del lavoro a seconda del loro grado di resistenza e conflitto. Le macchine sono forgiate dalle forze sociali ed evolvono in accordo a esse. Da questo punto di vista le piattaforme digitali sono un utile caleidoscopio. Procedono per concatenamenti di macchine fisiche e astratte, si diffondono nelle metropoli, nascono catturando forme di cooperazione pre-esistenti che sussumono e potenziano capitalisticamente. Ma al contempo, co-evolvono di continuo innovandosi grazie ai costanti comportamenti di sottrazione, resistenza, rifiuto, ma anche uso “altro” della forza lavoro delle piattaforme stesse. Sono insomma macchine che incarnano il diagramma delle relazioni di potere tra classi. L’innovazione procede in una dialettica tra il lavoro vivo che muove, forma e istruisce le nuove generazioni di macchine e il dispositivo-macchina che utilizza il lavoro vivo per modificarsi in continuazione. In questo le piattaforme sono macchine per eccellenza, macchine dinamiche che non catturano una relazione di potere ma riformulano costantemente delle relazioni di potere. Inoltre, le macchine e l’innovazione dei processi produttivi non investono solo il processo lavorativo, ma anche e soprattutto le condizioni sociali della produzione e della riproduzione complessiva del capitale. Le piattaforme digitali in questo senso ricalcano i contorni del conflitto sociale nella sua forma meno visibile e molecolare, cristallizzano di continuo e in una dinamica cangiante i comportamenti che si muovono al loro interno e ai loro bordi. È su questo livello di lettura che possiamo collocare una soglia rispetto al rifiuto del lavoro nel 4.0, in cui i confini tra cervello individuale e cervello sociale, tra lavoro vivo (e il suo sapere) e il suo divenire lavoro morto sono estremamente variabili e sempre conflittuali.

La questione della tecnica è sottoposta a questo sviluppo. La piattaforma digitale o le più recenti tecnologie sono macchine addestrate all’estrazione di valore ma anche luoghi di mediazione e scontro tra lavoro e capitale. La lotta di classe percorre e attraversa la tecnica e il mondo delle macchine, dentro un meccanismo complesso in cui si sovrappongono e contrappongono movimenti opposti. In questo senso pensiamo che le piattaforme delineino un campo di battaglia strategico all’interno del quale si collocano le tendenze di sviluppo e rispetto al quale possono prendere forma possibili alternative non piegate sul fronte capitalistico. Facciamo riferimento a percorsi e potenzialità che si aprono sul piano di nuove forme di soggettivazione dove le piattaforme, se considerate non come un semplice artificio digitale o un oggetto autonomo, ma come la configurazione dinamica di forze sociali che le plasmano, non si definiscono come un’astrazione tecnica. Piuttosto, esse emanano una soggettività “fisica” ben oltre sé stesse, interagendo e mutando di continuo a partire dalle interazioni sociali che costruiscono e nelle quali sono inserite. Chiaramente software e codici digitali funzionano oggi principalmente come macchine per aumentare e accumulare il plusvalore, ma ci pare che oltre alle dimensioni del sabotaggio e del “controllo operaio” dell’algoritmo sia necessario considerare anche un’ipotesi di counter-platforms, appunto di formazione di soggettività algoritmiche di rottura all’interno della metropoli planetaria integrata che sta emergendo. Tutte tracce di ricerca che chiaramente richiedono uno sforzo collettivo di inchiesta sul lavoratore 4.0 e sui conflitti che oggi si producono. Ci pare tuttavia che questo campo emergente sia particolarmente produttivo in quanto l’altezza della sfida che si pone per una counter-platform politics non si “limita” a battaglie di tipo settoriale. Se infatti, come abbiamo discusso, le piattaforme di configurano in senso lato come le infrastrutture del presente, incidere su di esse comporta una ridefinizione delle tendenze nelle relazioni di lavoro, nelle forme di riproduzione sociale, e finanche dell’ambiente fisico/digitale.


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