I Quaderni di Into the Black Box, Pubblicazioni

Sguardi continentali. Scenari dal disordine planetario

È uscito il quinto volume della collana I Quaderni di Into the Black Box che potete scaricare gratuitamente a questo link. Obiettivo di questa pubblicazione, che nasce da una tavola rotonda a chiusura di un ciclo annuale di seminari “Global Reset: scenari dal disordine planetario”, è quello di raccogliere un patchwork di sguardi situati sulla “globalizzazione”. Per quale motivo farlo? La riflessione sui processi globali ha assunto nuova importanza e rilievo negli ultimi anni, in particolare sotto la spinta di una serie di eventi — in primo luogo la pandemia e le guerre in Ucraina e Palestina. Il tema è nuovamente di grossa attualità. Fine della globalizzazione o addirittura deglobalizzazione, friend-shoring, decoupling o altre formule sono di continuo clonate per cercare di catturare le nuove dinamiche che la attraversano e istituiscono. La presente pubblicazione ha come obiettivo quello di approfondire come l’evoluzione della globalizzazione e il rapporto tra spazi del capitale e territorialità statuale stanno trovando nuove declinazioni.


INDICE

  • Introduzione: La globalizzazione come patchwork
    Into the Black Box
  • Asia
    Giulia Dal Maso
  • America Latina
    Giuseppe Lo Brutto
  • Nord America
    Felice Mometti
  • Africa
    Paola Pasquali
  • Europa
    Francesco Raparelli

Obiettivo di questa pubblicazione, che nasce da una tavola rotonda a chiusura di un ciclo annuale di seminari chiamato “Global Reset: scenari dal disordine planetario”, è quello di raccogliere un patchwork di sguardi situati sulla “globalizzazione”. Per quale motivo farlo? La riflessione sui processi globali ha assunto nuova importanza e rilievo negli ultimi anni, in particolare sotto la spinta di una serie di eventi — in primo luogo la pandemia e le guerre in Ucraina e Palestina[1] — che hanno portato a riprendere le fila del dibattito sulla globalizzazione, un tema che è stato molto forte negli anni Novanta e Duemila, e che per certi versi poteva sembrare quasi uno slogan. Il focus è oggi indubbiamente di grossa attualità. La discussione è accesa a livello nazionale e internazionale. Fine della globalizzazione o addirittura de-globalizzazione, friend-shoring, decoupling o altre formule sono di continuo clonate per cercare di catturare nel nuove dinamiche che la attraversano e istituiscono.

In questo testo abbiamo cercato, piuttosto che appiattire il discorso su un piano di relazioni internazionali come spesso si tende a fare, di costruire uno sguardo composito, in primis prendendo in considerazione il contesto di poli-crisi — per utilizzare un termine su cui insiste molto Adam Tooze — ovverosia l’idea che stiamo vivendo attraverso una costellazione di shock eterogenei ed endogeni che hanno deviato il corso storico della globalizzazione per come la avevamo conosciuta negli ultimi anni. Abbiamo poi cercato di scomporre quello che è il frame della globalizzazione in una serie di processi — politici, economici, tecnologici, simbolici — e questo ci ha portato a formulare un’analisi un po’ più complessiva. Già Marx parlava della tendenza generale del capitale alla costituzione di un mercato mondiale, un processo che già a quel punto non era analizzato come esclusivamente economico ma metteva in campo una pluralità di fattori, come l’astrazione sempre maggiore delle forme di scambio della moneta, il supporto dei poteri statuali soprattutto nelle fasi di accumulazione originaria, una divisione internazionale del lavoro e così via. Oltre a questo, abbiamo ripreso in mano il paradigma della world system theory, e quindi l’idea che esistano cicli egemonici che si susseguono tra loro e che definiscono un centro e una periferia, un attore egemonico e altri attori dipendenti.

Tratteggiato questo quadro, abbiamo cercato poi di porci una serie di domande: in primis, come collochiamo il discorso sulla globalizzazione rispetto a queste tendenze generali?

Da una parte, abbiamo guardato alla globalizzazione come uno specifico fenomeno, un progetto di governo politico del mercato mondiale, ossia quel progetto neoliberale plasmato dagli Stati Uniti negli ultimi quarant’anni, fatto dal Washington Consensus ma anche da istituzioni internazionali, da un certo tipo di visione culturale e così via.

Dall’altra, abbiamo cercato di mettere in questione anche alcuni degli approcci e degli assunti teorici tra i più consolidate, come, ad esempio, quello di Giovanni Arrighi: siamo così sicuri che a ogni crisi egemonica faccia seguito la definizione di un nuovo attore egemone? Possiamo invece immaginare forme di equilibrio instabile all’interno di un contesto — per usare una parola oggi cruciale — multipolare? Cosa significa, poi, definire un “polo”? Questi interrogativi ci avvicinano alla discussione contenuta in questo volume.

Abbiamo approfondito la dicotomia che in varie forme si può trovare sia all’interno di Marx, con altre parole, sia della world system theory: quella tra sovranità e spazi del capitale, processi di accumulazione e territorialità statuale. Qual è stata la nostra impressione? Che negli ultimi tempi, rispetto a una distinzione nord-sud del mondo molto forte a cavallo degli anni Duemila (riassunta in categorie invero problematiche come Global North e Global South), sembra essersi riproposta invece una distinzione est-ovest, all’interno soprattutto di uno sguardo occidentalocentrico che la legge come una contrapposizione tra economie di mercato e forme di capitalismo politico, democrazie e autocrazie (o cosiddette “dittature”). Da parte nostra ci sarebbero molteplici critiche formulabili su questa dicotomia, ma quello che è già interessante leggere al suo interno è come lo stesso occidente non si presenti più come un punto di riferimento globale progressista e universale, quanto piuttosto insista sul fatto di essere una parte [2], anche se sempre con dei toni occidentalocentrici — dunque come la parte migliore — che deve difendere la propria esistenza rispetto a una serie di minacce globali. Allo stesso tempo, anche il concetto di multipolarismo è da prendere con le pinze, o meglio da approfondire nelle sue sfaccettature. Da un lato questo concetto è stato spesso usato, anche e soprattutto, da alcuni attori globali per giustificare sia le campagne militari sia lo status quo; dall’altro ci sembra inevitabile dover valorizzare l’elemento di molteplicità che sta attraversando in questo momento lo scenario globale — che vede, da una parte, l’erosione di alcune istituzioni di mediazione sovranazionali (sopra tutte l’ONU), dall’altra il crescente ruolo della guerra come strumento di risoluzione delle contese internazionali. Allo stesso tempo però, quello che è emerso durante il ciclo seminariale da cui origina questa pubblicazione è che naturalmente i poteri statuali non sono gli unici poteri in campo: in questo senso risultano altrettanto cruciali il ruolo della logistica e delle supply chain internazionali, solo per citare un esempio. Esse, nonostante le molteplici forme di blocchi e di colli di bottiglia, non mostrano nel complesso segni di regressione ma, al contrario, sono in costante crescita e abbattono record su record adattandosi alle mutate condizioni politiche del mercato mondiale. In estrema sintesi, ci sembra di potere tranquillamente sostenere che siamo davanti all’evidenza sempre più lampante di un capitalismo integrato agli affari politici del globale (anche attraverso estrazione, finanza e digitalizzazione [3]) e che non è possibile ripensare esclusivamente su base nazionale.

Rispetto a questo tipo di lettura, vorremmo qui porre l’accento su due ulteriori elementi. In primo luogo, ci vorremmo concentrare sulla declinazione specifica, all’interno di contesti diversi, del rapporto tra spazi del capitale e territorialità, tra mercato e Stati: noi abbiamo toccato questo tema in alcuni momenti ed alcuni contesti, ma ci vogliamo chiedere qui in che modo il rapporto tra capitale e potere statuale tocca terra nelle diverse geografie del globo[4]. Non accade nello stesso modo tra Europa e Asia, tra America Latina e Stati Uniti, o in Africa. Allo stesso tempo questo rapporto non è solo il riflesso di equilibri che si giocano altrove — per esempio nello scontro tra grandi potenze come Stati Uniti e Cina — quanto piuttosto anche il prodotto di scelte e decisioni che avvengono all’interno dei contesti regionali.

In secondo luogo, vorremmo provare a sottrarci al discorso mainstream che insiste semplicemente sul ruolo degli Stati e del mercato come attori dello scenario globale: possiamo individuare altri soggetti che in ogni caso, anche nel loro piccolo, sono in grado di produrre potere e spazialità e proporre una visione emancipativa e progressista dello scenario globale contemporaneo? In che modi possono, le spinte dal basso, trovare forme di convergenza? C’è un ritorno o la necessità di una riflessione attorno al concetto di internazionalismo, per esempio?

La presente pubblicazione ha dunque come obiettivo quello di approfondire la configurazione eterogenea di questi due assi in differenti contesti planetari, come l’evoluzione della globalizzazione e il rapporto tra spazi del capitale e territorialità statuale sta trovando nuove declinazioni. E come secondo punto, come altri soggetti rispetto agli Stati e ai grandi capitali possono produrre spazialità, ipotesi e strade differenti per l’evoluzione degli scenari globali contemporanei. Il veloce viaggio attraverso i continenti che questo volume propone restituisce, non sorprendentemente, un’immagine di differenza radicale tra contesti che rende complicato provare a tracciare un filo comune. D’altra parte, questa è la cartina di tornasole della pluralità in essere, a seconda dei differenti contesti macroregionali. Diverse le sfide, diverse le prospettive. Proviamo, per chiudere questa introduzione, o formulare tre ipotesi, tre linee di discussione e ricerca da porre in essere a partire da contributi che andrete a leggere.

Ipotesi 1: la nuova fase della globalizzazione è caratterizzata dall’eterogeneità degli assemblaggi regionali

Quando si parla di globalizzazione e di crisi della globalizzazione il tema delle geografie del globale è sempre in qualche modo sul palcoscenico. La geografia del globale che si guardava negli anni Novanta era una cosa — le città globali e quel tipo di costruzione di catene globali del valore — la geografia del globale dei primi Duemila era ancora legata ad un’immagine di urbanizzazione planetaria e di emersione di nuove polarità, che tuttavia conteneva un sostanziale elemento di omogeneità quale tratto caratterizzante. La serie di sguardi situati qui racconti fa emergere invece una spazialità di tutt’altro tipo. L’immagine che si definisce leggendo i contributi dai diversi continenti restituisce l’estrema complessità ed eterogeneità della spazialità globale, degli spazi-tempi globali: da un lato vi è, ad esempio, lo spazio urbano statunitense che si compone di rotazioni intorno alla territorialità ampia di New York, si compone di rivolte come a Minneapolis, si compone — pensando ad Amazon come fa Felice Mometti — di nuovi lanci interplanetari che Blue Origin di Jeff Bezos, Space X di Elon Musk, etc. proiettano come nuova frontiera dell’accumulazione; dall’altro lato vi è un landscape asiatico descritto da Giulia Dal Maso, in particolare parlando della Greater Bay Area e quindi di zone di aggregazione e polarità logistico-urbano-finanziarie. Le altre descrizioni spaziali restituiscono un’immagine più “statuale”, di un’organizzazione dello spazio molto legata — in particolare per come la propone Giuseppe Lo Brutto — all’organizzazione da parte degli Stati di forme territoriali e di una trama infrastrutturale che investe le precedenti configurazioni. Anche Francesco Raparelli riporta un’immagine più legata ad una tenuta del sistema dello stato-nazione in Europa proprio su un livello di tenuta geopolitica, come anche una mancanza di interconnessione tra contesti di lotte differenti. Forse, è un’ipotesi che qui solleviamo e che riprenderemo in futuri interventi, eterogeneità e complessità sono la cifra distintiva della dimensione compiutamente planetaria che hanno assunto oggi i processi globali. Lo scarto rispetto al passato potrebbe dunque essere individuato proprio in una trasformazione dalla globalizzazione come vettore unificante e omologante ai processi globali come una costellazione variegata di vettori.

Ipotesi 2: Non c’è un attore egemone nel contesto del multipolarismo centrifugo

Insistere sulla crisi di egemonia degli Stati Uniti non comporta, automaticamente, né l’individuazione di un polo emergente né la dismissione completa dei primi dallo scacchiere globale. Spesso si dice che la Cina sarà il nuovo polo di riferimento; abbiamo provato a mettere in dubbio questa ipotesi chiedendoci se ci possa effettivamente essere davanti a noi uno scenario di una globalizzazione senza un centro. Per quanto riguarda la Cina, infatti, è innegabile che gli investimenti globali nelle infrastrutture, pensiamo al grande progetto noto come Belt and Road Initiative, si caratterizzino per un afflato imperiale non solo non solo sul piano materiale ma anche simbolico; dall’altro lato la Cina ha sempre avuto un atteggiamento di non intromissione negli affari internazionali. Rispetto alla narrazione dei due poli – uno statunitense e uno cinese – ci sembra che in gioco non ci sia tanto la separazione delle catene globali del valore in generale, quanto piuttosto una lotta sul dominio di queste catene, soprattutto in alcuni settori strategici quali le infrastrutture e le tecnologie digitali. L’Europa invece sembra essere diventata un terreno di contesa diretto — negli anni abbiamo visto sempre di più contesti di guerra accerchiare lo spazio europeo, ora quella guerra che ci ha sempre circondato è nello spazio europeo e per lo spazio europeo. Forse il punto è che in questione c’è proprio il tipo di modello di Europa che è stato in vigore in questi anni, quello legato indubbiamente agli Stati Uniti da un punto di vista economico e militare ma in grado anche di costruire relazioni strategiche con altri paesi come la Cina e la Russia. Quel tipo di modello oggi è saltato. Un paradigma alternativo, basato sulla fedeltà alla NATO per quanto riguarda le politiche internazionali e a Bruxelles per quanto riguarda le politiche economiche comunitarie, cui fa però da contraltare una restrizione di quelli che sono i diritti civili che comunemente hanno contraddistinto le democrazie liberali europee, sembra incarnato dalla Polonia. Nel corso degli anni quell’incredibile laboratorio politico che è l’America Latina ha provato a pensare un’autonomia regionale nel contesto globale, soprattutto sull’asse Lula-Chavez: c’è la possibilità di ricostruire qualcosa del genere oggi?

Ipotesi 3: La ridefinizione dei processi globali passa anche dal ruolo politico di attori non-statuali

Dal punto di vista dello sviluppo di contropoteri, la pandemia ha avuto una temporalità terribile sui movimenti globali: all’alba del 2020 ricordiamo il Cile in uno stato di agitazione costante, i sabati di rivolte dei gilet jaune in Francia che avevano un carattere dirompente figlio proprio della loro continuità, ma poi va ricordato l’Iran in rivolta, il fervore per certi versi inedito di Hong Kong etc. Cos’è rimasto di tutto questo dopo il Covid? Apparentemente poco o nulla. Nella realtà però, forse, sarebbe difficile leggere fenomeni come le lotte francesi contro le riforme delle pensioni, o le “grandi dimissioni” che hanno pervaso l’intero mondo occidentale, senza considerare i moti sociali pre-pandemici. Inoltre dobbiamo considerare il ruolo che le guerre in Ucraina e Palestina stanno avendo non solo nel ridefinire gli assetti geopolitici globali, ma anche le istanze e le alleanze dal basso. C’è infine un ulteriore elemento da considerare, ovvero il ruolo sempre più politico del capitale contemporaneo. Felice Mometti fa l’esempio di JPMorgan, ma lo stesso vale per le grandi piattaforme digitali (Google, Amazon, Facebook…). In relazione alle Big Tech, infatti, si vede da un lato un approfondimento del coordinamento tra Stato e capitale: si pensi, per fare l’esempio più immediato, al caso di Cambridge Analytica e al ruolo di Facebook nella costruzione dell’opinione pubblica. Alla base di tutto ciò che il ruolo infrastrutturale di queste aziende per la riproduzione sociale data la loro capacità di accumulare ed elaborare dati attraverso cui riescono a veicolare condotte. Assumere questo ripensamento dei rapporti tra Stato e capitale, ci porta, dopo una breve premessa, a formulare l’ultima ipotesi. La premessa si riassume nella costatazione che forse non siamo di fronte a un inedito storico (si pensi soltanto al rapporto tra gli Stati e le “charted companies” del ‘700). L’ipotesi, invece, è che per comprendere a pieno la transizione egemonica in atto sia necessario guardare anche ai soggetti del capitale (come Amazon, Google o Tencent, per l’appunto) che, con la loro forza inedita, si candidino a strutturare una nuova multipolarità non più comprensibile esclusivamente da uno sguardo geografico-statuale.


[1] I contributi qui raccolti sono stati elaborati prima del 7 ottobre 2023.

[2] Si veda il libro in uscita di S. Mezzadra, B. Neilson, The Rest and the West, Londra, Verso, 2024.

[3] S. Mezzadra, B. Neilson, Operazioni del capitale, Roma, Manifestolibri, 2020.

[4] S. Mezzadra, B. Neilson, Confini e frontiere, Bologna, il Mulino, 2014.

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