Eventi, Global Reset

La rottura delle catene globali del valore?

Terzo seminario del ciclo Global Reset: scenari dal disordine planetario
Introduce e coordina: Mattia Frapporti (Into the Black Box)
Con: Giorgio Grappi (Università di Bologna) e Sergio Bologna (storico)


La domanda di fondo che guida questo seminario è la seguente: alla luce dei due “Black Swans” (per citare Taleb 2007) o “soggetti imprevisti” (per citare Chicchi-Simone 2022) occorsi negli ultimi tre anni, vale a dire Covid-19 e guerra in Ucraina, che hanno prodotto un copioso dibattito sul tema della “de-globalizzazione”, come cambia la centralità economico-politica della logistica? Se infatti possiamo considerare la logistica e il suo footprint la “costituzione materiale della globalizzazione”, osservare i mutamenti dei mondi logistici conduce immediatamente al cuore delle rotture e ridefinizioni in corso attorno al tema della “globalizzazione”. Sono evidentemente domande e snodisemplificati che ne racchiudono molte altre. Proviamo ad attraversarli per capirne presupposti e implicazioni.

La crucialità economica e la dimensione politica delle infrastrutture e, più ampiamente, della logistica è cosa nota. I cosiddetti critical logistics studies a livello globale hanno dato molto spazio al ruolo di questi due vettori negli ultimi dieci anni, evidenziando caratteri che non avevano ancora raggiunto la centralità che meritavano (almeno, così ci sembra). Di ruolo politico delle infrastrutture (Winner 1980) o di “potere infrastrutturale” (Mann 1984) si parla certo da molto tempo. Allo stesso modo, anche di logistica e della sua posizione cruciale nel processo di valorizzazione del capitale ci sono importanti antesignani come, per fare un esempio noto, è il caso italiano della rivista Primo Maggio diretta da Sergio Bologna. Tuttavia, entrambe le categorie hanno raggiunto una consolidata posizione nel dibattito teorico e politico solamente in anni più recenti.

Di logistica, e della sua capacità ermeneutica per indagare i caratteri del nostro tempo (e del capitalismo più in generale), si parla soprattutto a partire dagli anni Dieci dei 2000. Libri come quello di Deborah Cowen (2014) o Keller Easterling (2014) nel dibattito globale, o come quello di Giorgio Grappi (2016) in Italia (solo per definire poche soglie utili), hanno svelato la centralità della circolazione e il ruolo politico che essa veicola. In termini davvero sintetici possiamo dire che tutti questi autori (e molti altri: Neilson, Mezzadra, Rossiter, ancora Bologna, Bonacich e Wilson, Harney, Tsing, Toscano, Into the Black Box, ecc.) hanno indagato le sfide alla stessa sovranità statale che le “operazioni logistiche” mettevano sul tappeto. Più precisamente, spinti anche da un nuovo tipo di lotte operaie (lotte “nella circolazione”) susseguitesi ai quattro angoli del mondo dopo la crisi finanziaria del 2007-2008, è emerso come non fosse più rimandabile indirizzare lo sguardo, interrogare e in qualche modo immergersi nelle dinamiche logistiche che attraversavano il pianeta.

Del resto, è proprio con le lenti logistiche che in qualche misura si è potuto cogliere l’impatto dirompente del “platform capitalism”, in ultima analisi un capitalismo profondamente logistico guidato dalla razionalità – per dirla in una forma standard – del just in time and to the point.

Benché con una storia più lunga e articolata alle spalle, il rinnovato interesse per il ruolo politico delle infrastrutture si è invece svelato più recentemente da una duplice angolazione. Da un lato, in una prospettiva che potremmo definire classica, da Guldi (2010 – Roads to power: Britain invents the Infrastructure State) alla stessa Easterling, passando per altri scritti mossi da casi di studio specifici (da Schindler e Di Carlo 2022 – The Rise of the Infrastructure State. How US–China Rivalry Shapes Politics and Place Worldwide, Bristol UP – a Naqvi 2022 ­­– Access to Power: Electricity and the Infrastructural State in Pakistan, Oxford UP), le infrastrutture materiali hanno rivelato il loro carattere di volano politico: in sintesi estrema potremmo dire che rappresentano la base materiale su cui alcuni (tutti?) processi politici si poggiano. Dall’altro lato, vale la pena di segnalare che negli ultimi anni il concetto di infrastruttura ha assunto un’inedita rilevanza nel dibattito critico, trovando applicazioni in campi che sono perfino difficili da circoscrivere. Dalle infrastrutture della cura, all’infrastruttura ospedaliera, scolastica o digitale, il concetto è arrivato a essere applicato per definire lo stesso capitalismo contemporaneo (Borghi 2022 parla proprio di “capitalismo delle infrastrutture”).

Fatte queste due brevi precisazioni, quello su cui vogliamo interrogarci oggi è capire a che punto siamo alla luce di guerra e pandemia Covid-19. Alcuni progetti infrastrutturali continuano a indirizzare l’agire politico nonostante i due “disruptive events” citati sopra. È il caso della BRI o della “infrastrutturazione” dell’Africa[1] di matrice cinese, così come degli ingenti progetti infrastrutturali in America Latina (anche qui la Cina non pare del tutto estranea), o dei progetti dei nuovi cavi sottomarini come il “Firmina” di proprietà Google che connetterà nel 2023 Stati Uniti a Brasile, Uruguay e Argentina. Allo stesso tempo anche la “logistica” sembra trovare più o meno agilmente nuove strade da percorrere, mostrando una capacità di resilienza e adattamento non certo nuova e superando agilmente bottlenecks di varia matrice.

Eppure, va comunque notato che un processo di cambiamento sta indubbiamente avvenendo. Da un punto di vista politico il punto all’ordine del giorno appare quello del “multipolarismo”. Dunque, non una staffetta attraversata da eventi più o meno drammatici come guerre e crisi globali che porterà a un passaggio di leadership dagli Usa alla Cina come preconizzato da Arrighi e dalla teoria dei cicli egemonici. Piuttosto, un approdo a una dimensione appunto multipolare. Alcuni autori come Wang Wen, professore al Chongyang Institute for Financial Studies, Renmin University of China, parlano del 2022 come l’anno della “de-occidentalizzazione” globale, paragonabile al 1991 quando “finì la guerra fredda”[2]. Wen fa notare che non è soltanto una questione di Russia che tenta di sfidare gli Usa sul terreno del potere militare. Altre situazioni in atto mostrano questa tendenza. La vittoria di Lula in Brasile, ad esempio, ha dato nuovo slancio al processo di integrazione monetaria dell’America Latina. Nel Sud Est asiatico, una serie di Stati guidati da Indonesia e non solo stanno assurgendo a nuove potenze regionali che si sono ben guardate dal seguire la condanna Usa e le sanzioni russe di matrice occidentale. In sintesi, sebbene il paragone con la fine della Guerra fredda sembri improvvido, alcuni processi in atto stanno certamente rimescolando un panorama globale ereditato dal ‘900.

Anche da un’angolazione economica le cose sono in movimento. Osserviamo ad esempio le infrastrutture della circolazione monetaria. La dedolarizzazione, ad esempio, è un fenomeno concreto. La procedura di accettazione degli Yuan cinesi per procedere a pagamenti di petrolio in Arabia Saudita sancita dalla partecipazione di Xi Jinping all’incontro tra i leader del Consiglio di cooperazione del Golfo (CCG) a Riyadh lo scorso dicembre, è la spia di un’operazione in atto da tempo. La creazione di un sistema di pagamento dei BRICS che circumnaviga la necessità di passare attraverso lo SWIFT di matrice occidentale non è certo un evento che è possibile sottovalutare[3]. Allo stesso modo, sebbene apparentemente in crisi in questo frangente, anche le criptovalute e, più in generale, le sfide anche in campo economico dell’Intelligenza Artificiale contribuiscono a ridefinire i tratti di un’economia che sta mutando velocemente. Infine, ridiscutendo alcuni assunti della World System Theory, la finanza e le operazioni finanziarie non ci sembra possano oggi essere considerate solamente in funzione anticilcica. Al contrario, esse appaiono perfettamente integrate ad altre operazioni del Capitale, e contribuiscono anch’esse alla creazione di “multipolarismo”.  

D’altro canto, Covid-19 e guerra hanno portato alla rottura di almeno alcune catene globali del valore che si alimentavano soprattutto in Cina. Le politiche zero-Covid che hanno notevolmente rallentato il PIL cinese, hanno avuto ripercussioni sull’intero pianeta che tuttora ne risente, nonostante il recente tentativo di riaperture di Xi dovuto anche (o forse soprattutto) alle proteste interne. Anche gli Stati Uniti con le nuove politiche di reindustrializzazione come quella varata da Biden con l’Inflation Reduction Act, stanno riorganizzando le loro filiere produttive. Infatti, sebbene formalmente varato per rispondere agli obiettivi climatici figli dell’accordo di Parigi, i 370 miliardi dell’IRA mirano a un’indipendenza energetica statunitense attraverso nuove fonti di energia. Sempre sul piano dell’energia non si possono non constatare le mosse più evidenti che molti Stati europei, e l’UE più in generale, stanno mettendo in piedi per emanciparsi dalla dipendenza da fonti russe. Il “piano Mattei” – almeno per quanto emerso da questi primi giorni – del governo Meloni va esattamente in questa direzione. Infine, e sempre a proposito di UE, il Chip Act (approvato in realtà l’8 febbraio 2022, quindi prima dell’invasione ucraina) prevede l’investimento di 43 miliardi di euro per raddoppiare entro il 2030 la produzione europea di chip, rendendo così autonomi gli Stati membri dalle forniture extra europei.

Se è vero tutto questo, dando adito alle retoriche sulla fine della globalizzazione che si sentono da più parti, come si spiega il record di scambi commerciali che nel 2022 ha raggiunto i 32 trilioni di dollari[4]? È sufficiente rispondere a questa contraddizione evidenziando la nascita di nuovi blocchi regionali/continentali? Siamo di fronte a un ri-orientamento della globalizzazione o l’evidente crisi del modello di globalizzazione neoliberale americana si muove verso forme di re-shoring (“de-globalizzazione”)? Cosa ci permette di intravedere un focus su infrastrutture e logistica nel mondo che si sta dischiudendo di fronte ai nostri occhi?



[1] https://www.economist.com/middle-east-and-africa/how-chinese-firms-have-dominated-african-infrastructure/21807721

https://qz.com/africa/2125769/china-has-invested-23-billion-in-africas-infrastructure

https://www.theafricareport.com/183370/china-is-delivering-over-30-of-africas-big-construction-projects-heres-why/

[2] https://www.scmp.com/comment/opinion/article/3205148/beyond-china-more-nations-reject-us-led-order-2022-will-go-down-year-de-westernisation

[3] https://digitalbankbrics.com/media/NIPS_Presentation_EN.pdf.
Più specificatamente, anche la Cina in alternativa sta testando nuovi modelli di pagamento http://www.pbc.gov.cn/english/130721/3508055/index.html

[4] https://unctad.org/news/global-trade-set-hit-record-32-trillion-2022-outlook-increasingly-gloomy-2023 L’inversione di tendenza paventata sembra più dovuta alla green transition che da altro…

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