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Il mito della Data Valley. Appunti sul Tecnopolo di Bologna e sul suo impatto sulla città

Che i dati siano ormai una risorsa preziosa e ambita, lo si è capito da tempo. Non è però altrettanto evidente come si faccia a estrarre, conservare, elaborare e impiegare questi dati. La parola ‘digitale’ ci fa pensare a internet, alle molteplici applicazioni che usiamo quotidianamente sui nostri smartphone, ma difficilmente ci verrebbe in mente qualcosa di fisico, tangibile. La dicotomia tra “reale” e “virtuale” con cui si è a lungo pensato il digitale va probabilmente superata.

Nessuna delle tecnologie digitali – dai siti web ai servizi cloud, dall’intelligenza artificiale al management algoritmico – potrebbe funzionare senza un’infrastruttura materiale fatta di cavi a fibra ottica, server, centri di calcolo. Nonché di complessi assemblaggi di forza-lavoro.

L’uso sempre maggiore di servizi informatici – tanto da parte di aziende private quanto nella pubblica amministrazione – richiede grossi investimenti nella costruzione e manutenzione di queste infrastrutture. I data center – centri di elaborazione dati – sono diventati, quindi, luoghi strategici.

Di più, attorno allo sviluppo di questi centri sembra essersi condensata una retorica della crescita e dell’innovazione – cosa certamente non nuova – secondo la quale la presenza di queste infrastrutture sarebbe di per sé un fatto positivo, in primis per i territori che le ospitano. Ma è davvero così? Mentre la mitica Silicon Valley sembra pagare il conto della contrazione delle Big Tech, in Emilia-Romagna si insegue il sogno californiano del capitalismo digitale. Cosa ci dobbiamo aspettare?


L’Hub del digitale

Un caso molto interessante da cui partire per approfondire il rapporto fra territori e infrastrutture digitali è indubbiamente quello del progetto del Tecnopolo di Bologna. Il Protocollo di Intesa stipulato tra Regione Emilia-Romagna, Provincia di Bologna e Comune di Bologna il 28 gennaio 2010 e il successivo aggiornamento del 5 marzo 2014 stabilivano, infatti, la realizzazione all’interno dell’area della Ex manifattura tabacchi di Bologna sita in Via Stalingrado di un hub dell’innovazione digitale.

L’area dell’Ex manifattura, progettata nel 1952 da Pier Luigi Nervi ed estesa su oltre 120.000 mq, costituiva un vuoto urbano di vaste dimensioni giusto nella prima periferia della città e il progetto, come sempre accade in questi casi, è stato presentato come un importante intervento di riqualificazione per la città sulla base di una partnership pubblico/privato.

Il progetto dello studio GMP Architekten, vincitore nel 2012 del concorso internazionale di architettura per la riqualificazione dell‘area, prevedeva il restauro e il recupero degli edifici per la realizzazione di quello che ambisce ad essere uno dei principali hub europei dei big data e del digitale e che concentrerà oltre l’80% della capacità di supercalcolo nazionale e il 20% di quella europea, con applicazioni che vanno dall’intelligenza artificiale alla medicina, dalla meteorologia all’industria aerospaziale.

Il Tecnopolo, infatti, ospita alcuni tra i più potenti High Performance Computer (HPC) al mondo.

Il 4 settembre 2021 è stato inaugurato il nuovo data center del Centro Meteo Europeo ECMWF, che prende il posto di quello di Reading, il cui limite è stato proprio quello di non poter ospitare la nuova generazione di supercomputer. Nel giugno 2017 i rappresentanti di tutti gli Stati membri dell’ Unione Europea hanno approvato la proposta del Governo italiano e della Regione Emilia-Romagna di ospitare il nuovo data center a Bologna. I lavori di costruzione sono iniziati a dicembre 2018 e ci sono voluti tre anni per il completamento grazie a un investimento di 62 milioni di euro (43,5 a carico del Ministero dell’Università e della Ricerca e 18,5 a carico della Regione Emilia-Romagna). All’interno del Centro Meteo ha trovato casa il sistema di supercomputer Atos che permetterà previsioni meteo più accurate, inclusa la prevenzione di eventi estremi.

Il 26 novembre 2022, invece, è stato inaugurato il Centro Nazionale di HPC, Big Data e Quantum Computing, la cui missione è realizzare un’infrastruttura digitale nazionale. Stavolta i fondi – 319.938.979,26 euro – provengono dal piano Next Generation EU. Fiore all’occhiello del Centro, gestito dal CINECA (un Consorzio Interuniversitario formato da 115 Enti pubblici) insieme ad alcune delle partecipate di Stato più importanti come Terna, Eni e Ferrovie dello Stato, è il supercomputer europeo Leonardo, capace di un miliardo di miliardi di operazioni al secondo e il quarto più potente al mondo.

Oltre al Centro Meteo Europeo e al Centro Nazionale di HPC, nel progetto del Tecnopolo è previsto siano ospitati – tra gli altri – il Centro di Competenza Industria 4.0, le biobanche dell’Istituto Ortopedico Rizzoli, l’Array Center dell’Istituto Nazionale di Astrofisica, l’IBM Center Big Data and AI for Aging e un incubatore per startup.

Al di là degli aspetti tecnici del progetto, il lancio del Tecnopolo è stato generalmente accompagnato da una comunicazione pubblica entusiasta e promettente, attingendo a una retorica largamente diffusa che vede nel digitale un fattore positivo per lo sviluppo economico. La filosofia politica sottesa è quella di tecno-soluzionismo a tutti i problemi inerenti alla crescita, alle condizioni di lavoro e alla cosiddetta transizione ecologica.

Nello specifico, sono principalmente due le traiettorie aperte dal progetto Tecnopolo rispetto al suo impatto territoriale: la creazione di posti di lavoro dentro e attorno all’infrastruttura e la tutela ambientale. Proviamo ad esplorarle in dettaglio.

Spettri della riqualificazione digitale

La trasformazione in senso neoliberale degli spazi urbani applicata dagli anni Ottanta ha ormai da tempo cambiato il ruolo dei territori all’interno dei processi di accumulazione capitalistica. L’etica dell’auto-impresa non si è insinuata solo negli abitanti della città, trasformati sempre di più da cittadini in capitale umano, ma ha inglobato lo spazio urbano nella sua interezza. Per riprendere un famoso articolo di David Harvey degli anni ’80, le amministrazioni locali sono passate dalla gestione alla valorizzazione dei territori. All’interno di questo processo non conta solo la conversione delle aree urbane in asset produttivi, ma anche la creazione di retoriche progressiste e imprenditoriali che attraggano capitali privati e finanziamenti pubblici.

Che questa etica dell’auto-impresa abbia attecchito pienamente anche in Emilia-Romagna lo si intuisce facilmente anche dalle molteplici forme di branding con cui le città hanno provato a vendersi negli ultimi anni: Motor Valley, Packaging Valley, Food Valley e, ora, Data Valley.

Il legame di Bologna con lo sviluppo delle tecnologie informatiche non è una novità. Già nel 1961 il CNEN (ora ENEA) decise di stabilire proprio a Bologna il centro di supercalcolo. Agli inizi degli anni Duemila era stato messo in piedi il cosiddetto ecosistema regionale dell’innovazione, una rete di 10 Tecnopoli la cui distribuzione ricalca quella dei flussi logistici della via Emilia, grazie a un investimento complessivo di 24 milioni di euro di fondi europei POR-FESR.

Ora il salto di qualità va rintracciato nell’affermazione più complessiva del paradigma del capitalismo delle piattaforme e nel divenire essenziali dei servizi digitali, anche in seguito alla pandemia che ha spinto a una sempre maggiore digitalizzazione delle nostre vite. Il radicamento di questo nuovo assetto produttivo basato sull’implementazione delle tecnologie digitali e sull’uso dei dati ha spinto non solo i privati a scommettere sui processi di digitalizzazione, ma anche gli Stati a rafforzare le proprie infrastrutture informatiche. La costruzione del Tecnopolo di Bologna costituisce, dunque, un ottimo esempio di come la spinta all’innovazione tecnologica si possa intrecciare con operazioni di cosiddetta riqualificazione urbana di aree dismesse e, più in generale, alla valorizzazione dei territori.

La promessa che viene fatta alla città è che il Tecnopolo possa contribuire all’economia urbana, in particolare tramite la creazione di un indotto produttivo capace di creare fino a 2500 posti di lavoro (c’è chi dice anche fino al doppio). Questo tipo di annunci, spesso, rientrano all’interno di una strategia di matrice finanziaria volta ad attrarre investimenti formulando una promessa di sviluppo a venire, ma basta dare un occhio su LinkedIn per scoprire l’abbondanza di annunci di lavoro nel campo informatico a Bologna.

Eppure, questo esercito di tech workers che sembra in procinto di invadere la città va ad aggiungersi ad un contesto urbano già sotto forte stress per quanto riguarda la situazione abitativa. Bologna è una delle città in Italia in cui il prezzo degli immobili e il costo degli affitti è cresciuto maggiormente negli ultimi anni. La difficoltà nel trovare appartamenti in locazione è ormai endemica e fuori controllo, con alcune fasce – migranti, studenti – che stanno pagando il prezzo più alto di questa situazione. Proprio la destinazione d’uso delle aree dismesse e dei vuoti urbani è stata oggetto di dibattito negli ultimi anni. L’accesso alla città, ai suoi servizi e alle sue attività è diventato, in parte, esso stesso un privilegio riservato a quanti riescono a permettersi una soluzione abitativa sempre meno facile da trovare.  

Il mito della Silicon Valley, paragone tanto ricorrente nei discorsi sul Tecnopolo, andrebbe esplorato nel dettaglio rispetto ai suoi effetti sulla popolazione urbana e sul mercato immobiliare, basti pensare ai processi di espulsione che hanno caratterizzato città come San Francisco.

Green data center

L’impatto territoriale dell’innovazione digitale non va però misurato unicamente in termini sociali. Le cosiddette esternalità negative riguardano tutto l’ambiente circostante nel suo complesso.

Un data center è un’infrastruttura fortemente energivora: necessita costantemente di elettricità per funzionare e di acqua per raffreddare i macchinari che altrimenti rischierebbero di surriscaldarsi in poco tempo.

Si stima che solo il supercomputer Leonardo consumerà tanta energia elettrica quanto una città da 180mila abitanti. Come Modena, per intenderci. Secondo Statista, a livello mondiale nel 2022 esistevano oltre 6.300 data center per 15 paesi. La cifra va sicuramente vista al rialzo. A ciò va aggiunto che la domanda di nuove infrastrutture informatiche è in costante aumento. Parliamo, quindi, di trasformazioni repentine che spesso hanno luogo in maniera più veloce di quanto si sviluppi un dibattito pubblico attorno al loro uso e ai loro effetti. Si stima che globalmente i data center assorbano il 2% dell’elettricità mondiale e che generino lo stesso volume di emissioni di carbonio del settore degli aerotrasporti (in termini di consumo di carburanti). Secondo un report di Greenpeace del 2019, entro il 2025 la quota di elettricità mondiale assorbita dal settore IT potrebbe salire fino al 20%. In Irlanda i data center rappresentano attualmente l’11% della domanda totale di energia elettrica, a Singapore la quota raggiunge il 7%, mentre in Cina nel 2018 i data center hanno consumato più elettricità che in tutta la Malesia.

È qui che però si inserisce un altro discorso estremamente in voga, quello delle infrastrutture green. La cosiddetta transizione gemella – ecologica e digitale – promette un’innovazione tecnologica a zero impatto ambientale così come una riduzione delle emissioni nocive grazie allo sviluppo di nuove tecnologie.

Alcune tra le più importanti aziende del settore come Amazon e Google hanno lanciato un “Patto per la neutralità climatica dei data center” il cui obiettivo finale è rendere i data center collocati in Europa neutri dal punto di vista climatico entro il 2030.

Se facciamo ancora riferimento al solo Leonardo, quest’ultimo si rifornirà per il 50% – viene promesso – di elettricità green e utilizzerà un circuito chiuso di raffreddamento in modo da abbassare il più possibile l’indice di efficienza (Power Usage Effectiveness).

Pur considerando questi avanzamenti come importanti, tuttavia, altri studi sottolineano come l’impatto ambientale di un data center non può essere valutato unicamente nella sua fase d’uso. Il cosiddetto Life Cycle Approach tiene in considerazione anche le fasi “a monte” (produzione di tutti quegli apparati come server, dischi rigidi, cavi di rete, necessari al suo funzionamento) e “a valle” (la gestione di fine vita di questi apparati che hanno una vita molto breve, 3-5 anni per un disco rigido). Uno studio LCA promosso dall’Università di Padova mostra come il 61% delle emissioni totali (tonnellate di CO2 equivalente) sia attribuibile alla fase di realizzazione del data center, mentre il 39% è dovuto al suo funzionamento (consumo di energia). La vita di un data center non è, dunque, un fenomeno puntuale, circoscritto. Piuttosto, chiama in causa geografie estese e attori stratificati. A ciò va aggiunto il fatto che la maggior parte dei dati immagazzinati, finanche il 70%, non viene utilizzato: i cosiddetti dark data non costituiscono solo uno scarto che rallenta le operazioni di calcolo e un costo per il mantenimento dei server, ma anche un fattore che contribuisce in modo significativo alle emissioni.

Per chi sono le infrastrutture?

Abbiamo già parlato di come la retorica delle rivoluzioni gemelle vada contestualizzata all’interno di un più generale processo di imprenditorializzazione dei territori. Per quanto si possa promettere che l’innovazione digitale sia foriera di miglioramenti sociali senza impatto ambientale, c’è sempre un prezzo da pagare.

Rispetto a quest’ultimo aspetto, però, vorremmo rifuggire dalla tentazione luddista di rifiutare in toto il cambiamento tecnologico. Piuttosto che demonizzare il digitale, ci interessa porre un problema di gestione politica dell’innovazione tecnologica: chi decide su quali tecnologie investire? Quale redistribuzione dei benefici e quale compensazione dei danni viene messa in atto? A cosa ci servono le infrastrutture digitali?

Quello che sembra mancare nel caso del Tecnopolo di Bologna è proprio un dibattito pubblico sul rapporto fra hub digitale e città. La cosa ci sembra ancor più urgente se pensiamo che si tratta di un’infrastruttura statale la cui gestione, però, è completamente verticale in quanto affidata ad aziende partecipate o enti che non hanno alcun interesse ad una gestione allargata delle stesse. Non è una questione superficiale. La potenza di calcolo offerta oggi dai supercomputer, a nostro avviso, rende nuovamente attuale un discorso politico sulla pianificazione. I big data ci permettono una misurazione e una programmazione che aprono all’immaginazione di scenari post-capitalistici. Perché limitarsi alla prevenzione degli eventi climatici estremi quando potremmo utilizzare la stessa tecnologia per lo studio e l’inversione del cambiamento climatico? Perché non organizzare lo sviluppo urbano tramite una maggiore inclusività digitale del territorio piuttosto che riservare la potenza dell’infrastruttura digitale ai soli interessi di aziende con logiche private?

È solo attraverso una socializzazione della potenza informatica che, a nostro avviso, si può costruire un discorso sugli effetti e sulla gestione dell’impatto delle infrastrutture digitali sui territori senza cadere in uno sterile binarismo che vede opposti tecno-entusiasti e neo-luddisti. Il Tecnopolo di Bologna, in questo senso, è indubbiamente un ottimo punto di partenza attorno al quale iniziare a sperimentare contro-narrazioni e pratiche alternative.  


Illustrazione di Salvatore Liberti.
Articolo pubblicato su NapoliMonitor il 1 maggio 2023.

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