AmericaLatina, Articoli

La resistenza indigena e contadina contro i megaprogetti nel sud del Messico

Uno degli ultimi attacchi del capitale contro le comunità indigene e contadine del sud del Messico è stato, al tempo del governo di Enrique Peña Nieto (2012-2018), la promulgazione della Legge delle Zone Economiche Speciali (ZEE).  Questa legge includeva, in un primo momento, gli stati di  Michoacán, Guerrero, Oaxaca, Veracruz y Chiapas e in origine l’idea era creare diversi “poli di sviluppo” localizzati nell’ Corridoio Industriale Interoceanico (Istmo di Tehuantepec), specificamente nei porti di Salinas Cruz (Oaxaca) e Coatzacoalcos (Veracruz), in Porto Chiapas (Chiapas), Porto Progreso (Yucatán) e nel Porto di Lázaro Cárdenas (Michoacán), considerati luoghi con un importante potenziale produttivo e logistico. L’intenzione principale era promuovere la creazione di zone franche dove realizzare un insiemi di megaprogetti. L’emanazione di questa legge ha evidenziato l’emergere e la ripresa di una diversità di movimenti, in maggioranza indigeni e contadini, contro i grandi progetti che si intendevano realizzare grazie a questa nuova strategia di dominio del territorio che voleva legalizzarne la espropiazione a scapito delle comunità, particolarmente nel centro e sud del paese.

Più recentemente, in aprile del 2019, durante il suo primo anno di governo, l’attuale presidente Andrés Manuel López Obrador (AMLO), del partito-movimiento Morena, ha annunciato la cancellazione delle Zone Economiche Special, sostituiendole con nuovi grandi progetti considerati di prima importanza, tra i cuali il Tren Maya e il Corridoio Transistmico o Corridoio Multimodale Interoceanico. Quest’ ultimo, come si puo leggere nell’ultimo Piano Nazionale di Sviluppo (PND 2019-2024), è stato progettato come una serie di corridoi multimodali, basati su infrastrutture di trasporto di merci (strade, ferrovie, porti) e di energia (gasdotti) che comprenderá e pregiudicherà 98 municipi: 46 nello stato di Oaxaca, 33 in Veracruz, 14 in Chiapas e 5 in Tabasco e unirà il porto di Salina Cruz con il porto di Coatzacoalcos. Lo scopo di questo progetto è aprofittare della posizione geostrategica del Istmo di Tehuantepec (essendo la parte più stretta del territorio tra l’oceano Atlantico e il Pacifico di tutto il continente) e competere, grazie alla creazione di un gran centro logistico, nel mercato mondiale del movimento delle merci. Lungo il Corridoio si prevede la costruzione di una zona libera conformata per 10 parchi industriali, chiamati clusters, creando, in questo modo, un estenso polo di sviluppo energetico-industriale, commerciale e di servizi di carattere integrale, che denota una forte analogia con il progetto originale delle ZEE. Oltretutto, i clusters seranno utilizati come luoghi di reclutamento di lavoratori sottopagati e centri di permanenza e sfruttamento dei migranti centroamericani nel loro cammino per arrivare negli Stati Uniti.

Il secondo grande progetto di riorganizzazione del territorio e di controllo della popolazione del nuovo governo è il Tren Maya, considerato, nel PND, come il più importante progetto di infrastrutture, sviluppo socio economico e turismo del sexenio attuale e che avrá una lunghezza di 1525 kilometri. Secondo il parere di diversi accademici e rappresentanti indigeni, lungi dal rispolvere le necessità delle comunità della penisola dello Yucatán, il Tren Maya rispone a interessi privati del settore industriale, commerciale, turistico, agroalimentare e dell’energia rinnovabile, che hanno messo in atto una strategia di investimento su larga scala nella regione. Questa strategia di sviluppo non comporta nessun beneficio per le comunità indigene e contadine, che non sono state prese in considerazione nella scielta dell’itinerario del treno. L’ obiettivo è praticamente uguale ai piani e ai progetti dei governi precedenti: la depredazione delle risorse naturali a beneficio del capitale, per cui si può evidenziare, per lo meno in questo ambito, una continuità politica di AMLO con i governi liberali che lo hanno preceduto, come con alcuni governi progressisti latinoamericani, chiamati neodesarrollistas. Uguali saranno anche le consecuenze negative per le comunità che resistono all’espropriazione dei loro territori.

Per imporre questi megaprogetti di sviluppo, in Messico sono state utilizzate diverse strategie, la maggior parte di esse centrate in misure repressive attraverso la militarizzazione dei territori contesi e la criminalizzazione della protesta. Ciò nonostante, con l’arrivo di López Obrador a la carica presidenziale hanno cominciato a essere utilizzati strumenti diversi, alcuni ereditati dai governi che lo hanno preceduto e altri nuovi. Tra questi, oltre alla cooptazione di lider comunitari in posti di governo e nel partito ufficiale, si aggiunge il clientelismo e il paternalismo statale nei confronti delle popolazioni indigene che vivono nei territori dove si vanno a costruire i megaprogetti, come parte di un più ampio programma di assimiliazione “per il bene della Nazione”, insieme al disciplinamento sociale che implica lo svuotamento culturale. Quest’ultimo è accompagnato, come si è già detto, da una crescente militarizzazione della regione, il cui scopo è quello di contenere l’emergere di nuovi movimenti sociali che difendono i propri territori e modi di vita. Questo perchè i movimenti contadini e indigeni, nella zona compresa dentro le Zone Economiche Speciali, Il Corridoio Transistmico e il Tren Maya, hanno come sfondo la lotta contro l’imposizione di megaprogetti che facevano parte del “defunto” Plan Puebla Panamá (PPP-2001) e che sono stati rivitalizzati attraverso il Progetto Mesoamerica (2008). Allo stesso tempo i movimenti in questione sanno bene che questi progetti, spesso chiamati “progetti di morte”, fanno parte di più ampi piani di controllo geopolitico elaborati dalle Organizzazioni Finanziare Internazionali che, alleate con gli Stati e le imprese transnazionali, e con il pretesto dello sviluppo e del benessere, perseguono un unico obiettivo: impadronirsi dei beni e del patrimonio naturale di vaste regioni ritenute strategiche, commercializzare le merci trasformate in tempo reale e utilizzare la abbondante mano d’opera sottopagata, tutto per alimentare l’accumulazione richiesta dal sistema neoliberalista.

Fonte: geocomunes.org

La resistenza di cui stiamo parlando ha come protagonisti i movimenti che difendono il carattere pubblico-comune dei beni della natura e contro il saccheggio, la espropriazione territoriale delle comunità, la privatizazzione della propietà collettiva della terra, nonché contro lo sterminio della vita che la mercificazione e lo sfruttamento capitalista intensivo implicano. Si tratta della generazione e riattivazione di processi organizzativi da parte di chi abita i territori che saranno interessati da gravi impatti ambientali, culturali e sociali.

Si possono citare molti esempi di lotta e resistenza contro il modello di sviluppo che si vuole imporre, principalmente nelle regioni indigene del sud del paese. È possibile riconoscere non solo centinaia di movimenti locali o regionali, ma anche organizazzioni e reti a livello nazionale, che fanno affidamento su iniziative collettive, contro la costruzione di idroelettricche, miniere a cielo aperto, licenze petrolifere, gasdotti, fracking, parchi eolici, nonché contro la costruzione di infrastrutture per accelerare la circolazione delle merci, come autostrade, aeroporti, porti e treni in territori comunali. Una delle caratteristiche che hanno in comune è che sono lotte in difesa del territorio e della identità contro l’imposizione di diversi megaprogetti, i cuali portano con sè, tra gli effetti più visibili: la divisione nella comunitá e tra comunità, frammentazione del tessuto sociale, perdita di terra di cultivo, sfollati (desplazados), aumento della violenza, prostituzione, alcoolismo e, soprattutto di minacce, incarceramenti, sparizioni (desapariciones) e omicidi selettivi di lottatori sociali, lider delle comunità e difensori del territorio.

Di fronte a questo attacco massivo del capitale attraverso i suoi differenti attori, le comunità hanno intrapreso una lunga strada per difendersi internamente e allo stesso tempo trovare alternative allo sviluppo imposto dalla visione occidentale. Si tratta di processi che avanzano seguendo il principio della democrazia diretta e partecipata basata sul dialogo e sul consenso, riprendendo le esperienze delle assemblee delle comunità indigene. Inoltre, le comunità hanno iniziato a utilizzare più frequentemente strumenti legali per difendersi, in primis il rimedio dell’amparo. Questa azione legale ha cominciato a essere una parte fondamentale del repertorio di mobilitazione sociale ed è diventata uno strumento legittimo e legale di azione collettiva. Di conseguenza, i principali repertori dei movimenti indigeni e contadini attualmente sono la lotta legale combinata con altre forme di confronto come l’azione diretta e la disobbedienza civile. Tra questi ultimi ci sono, ad esempio, presidi, marce, blocchi autostradali e occupazioni di spazi pubblici, tutti con una larga tradizione in Messico. Per le ragioni descritte, si può parlare, rispetto all’attuale movimento in difesa del territorio, della strategia “della Legge e del Machete”: si rifugia nei sui diritti costituzionali però, nel caso in cui non vengano rispettati, è disposto a difendere i propri territori fino alle ultime conseguenze, attraverso l’azione diretta.

Per citare solo alcuni esempi, possiamo parlare delle oltre settanta comunità della Costa e della Montagna di Guerrero organizzate nella Polizia Comunitria, che da venticinque anni seguono un processo decisionale autonomo di tipo assembleario attraverso il quale hanno raggiunto un proprio sistema di giustizia-rieducazione e di sicurezza e allo stesso tempo hanno vietato l’ingresso di imprese transnazionali nei loro territori. Ricordiamo anche l’autonomia raggiunta dalla comunità michoacana di Cherán, che ha rifiutato le elezioni politiche per governarsi attraverso il principio degli usi e costumi comunitari e gestire in modo sostenibile le foreste e gli altri beni naturali contro le minacce al loro ecosistema da parte di imprenditori, politici e narcotrafficanti. Un processo simile a quello che stanno costruendo le comunità zapoteche dell’Istmo di Tehuantepec contro i progetti eolici e ora il Corridoio Transistmico, arrivando a denunciare le consulte (simili ai referendum) simulate, utilizzate per legittimare decisioni già prese, dove i popoli indigeni continuano a essere considerati come oggetti delle politiche pubbliche e non soggetti con diritti, dato che non sono rispettati i loro diritti collettivi. O le oltre quaranta comunità nello stato del Chiapas che si sono dichiarate territori liberi da miniere. E’ importante segnalare anche i MAREZ, Municipi Autonomi Zapatisti, che continuano, contro ogni previsione e contro i continui attacchi paramilitari, nella costruzione dei loro progetti alternativi e autonomi nel campo della salute, dell’istruzione e dell’agricoltura. In questo contesto sono state create e sono cresciute diverse reti e movimenti, tra i cuali possiamo citare la REMA –Rete Messicana di Vittime dalla Miniera-, la ANAA –Assemblea Nazionale di Vittime Ambientale-, il MADPER –Movimento Messicano di Vittime dalle Dighe e in Difesa dei Fiumi. Il miglior esempio di coordinamento tra popoli e comunità a difesa del territorio continua però ad essere il Congresso Nazionale Indigeno (CNI), fondato nel 1996 e composto da 45 popoli, nazioni e tribù originari del Paese. Il suo principale obiettivo è essere la casa di tutti i popoli indigeni, dove questi possano trovare uno spazio di riflessione e solidarietà per rafforzare le loro lotte di resistenza e ribellione, rispettando le proprie forme di organizzazione e di decisione.

Gli esempi menzionati, come molti altri nel sud del Messico, sono processi autonomi fondati sulle scelte prese nelle assemble dove tutti gli abitanti della comunità partecipano e decidono; per tal motivo si puo parlare di vera democrazia diretta: la base della sopravvivenza è l’unità della comunità e il processo decisionale per consenso. È proprio questa la forza che permette alle comunità indigene e contadine del nostro Paese di sopravvivere per creare forme di lotta e alternative al modello predatorio neoliberale.

Contro questi movimenti sono state attuate politiche sociali e riforme statali, adottando misure sempre più repressive e autoritarie, con lo scopo di mantenere l’ordine e garantire la pace sociale necessaria per applicare i processi neoliberali. Di conseguenza, la militarizzazione è utilizzata specialmente per contrastare i processi organizzativi che si oppongono al controllo del territorio, di aree ritenute strategiche sia per la circolazione delle merci, sia per l’appropriazione di risorse geostrategiche da parte di interessi privati ​​tutelati per lo Stato. Questa affermazione è evidente se guardiamo la mappa delle caserme e i distaccamenti militari, dove si vede chiaramente che la loro disposizione spaziale non corrisponde ai tassi di violenza nazionale, piuttosto il suo dispiegamento geografico sembra seguire il percorso dei megaprogetti di sviluppo del nuovo governo e delle zone di resistenza ad essi.

Per concludere possiamo dire che oggi il Paese è un vasto scenario di battaglie tra le forze della resistenza popolare e lo Stato sostenuto da gruppi armati delle stesse compagnie transnazionali, narcotrafficanti e paramilitari, con l’obiettivo di liberare le abbondanti risorse produttive della regione e criminalizzare i movimenti contrari al “progresso”. I conflitti minacciano di aggravarsi man mano che i popoli della regione formano reti di resistenza sempre piu solide e articolate per difendere i propri territori e lo Stato continui a non ascoltarli.

Articoli Correlati