Manifesto-2022

Platform Communism: un manifesto per muoversi dentro e contro il capitalismo delle piattaforme

Se non ve ne foste accorti, siamo oramai nell’era delle piattaforme. L’impatto dirompente di questi dispositivi si è consolidato in una presenza capillare all’interno delle relazioni sociali ed economiche delle nostre società. Ovunque, dall’Asia all’America Latina, dall’Africa all’Europa. Non è più possibile immaginare una giornata qualunque senza collegarsi a una app per comprare qualsivoglia servizio, aggiornarsi su quello che sta succedendo nel mondo tramite qualche media, postare dei contenuti su un social, lavorare nel cloud. Viviamo in una realtà aumentata che a breve verrà espansa dal Metaverso mentre il lavoro, più o meno invisibile, è costantemente codificato ed espropriato delle proprie vite sotto forma di dati. Non è più una questione di se e quando, ma di come. Ormai il tessuto produttivo del capitalismo contemporaneo si è infrastrutturato attorno allo sviluppo delle tecnologie digitali e delle piattaforme. Il punto, semmai, è indirizzare politicamente questa trasformazione.

I profeti del business as usual cinguettano entusiasti il solito mantra, lasciate fare al mercato che pioveranno dal cielo soldi per tutti… prima o poi. I policymaker – come piace chiamarli oggi – cercano invece di correre ai ripari dopo che il Leviatano ha lasciato crescere al suo fianco nuovi animali fantastici che ne minacciano la supremazia. C’è poi la vasta quanto frammentata famiglia di quelli/e che un tempo sarebbero stati definiti di “sinistra” – rivoluzionari, riformisti, rossi, neri, verdi e tutte le altre sfumature che vi vengono in mente. Forse oggi alcuni di loro preferirebbero farsi chiamare accelerazionisti perché credono che spingendo fino all’estremo le trasformazioni tecnologiche si innescherà un superamento tanto economico quanto sociale dei rapporti capitalistici. Altre invece rispolverano un socialismo 4.0: nazionalizziamo i mezzi di produzione, anzi le piattaforme! Non potevano mancare ovviamente i neo-luddisti, per alcuni bisogna congedarsi dalla metropoli e dalle sue macchine digitali per ritornare al mondo fatato e primigenio della campagna. Speriamo di non aver dimenticato nessun… Forse non abbiamo nominato proprio lui, quello spettro di cui parlava qualcuno, un signore che frequentava le osterie ma diffidava di quelle che offrivano ricette per il sol dell’avvenire. Ha senso parlare di comunismo al giorno d’oggi, un comunismo delle piattaforme? Non troverete la risposta in questo Manifesto, piuttosto una suggestione.

Proveremo, infatti, a sintetizzare per punti quel movimento reale, quell’insieme di contraddizioni che giocano nella trasformazione in atto che chiamiamo capitalismo delle piattaforme – fatto di macchine e lavoro vivo, accumulazione di dati e accumulazione di valore, digitale e materiale – che potrebbero essere utilizzate come leva per abolire lo stato di cose esistenti. Viviamo immersi nelle contraddizioni: parliamo di salario ma siamo a lavoro 24/7, non esisterebbe nessun social media se non cooperassimo costantemente sulle piattaforme eppure sono in pochissimi a godersi la ricchezza così prodotta, possiamo monitorare costantemente qualsiasi attività in ogni parte del globo, spiare chiunque con dei software o sganciare bombe con dei droni ma non riusciamo a garantire istruzione e sanità alla maggior parte della popolazione mondiale. Non c’è alternativa al capitalismo delle piattaforme, al massimo possiamo scavare la nostra nicchia di sopravvivenza o illuderci che un giorno domeremo la Bestia. Il realismo è l’ontologia politica dei conservatori se pensiamo al reale come a qualcosa di compatto, omogeneo. Noi preferiamo la talpa che esplora il sottosuolo e scava cunicoli fino a quando l’edificio sovrastante non crolla. Se siete arrivate a leggere fin qui forse vorreste sapere anche qualcosa in più sul capitalismo delle piattaforme.

Abbiamo riassunto in 11 punti quelle che per noi sono le caratteristiche – e le contraddizioni – della nuova era.

| Genealogia | Le piattaforme digitali riflettono una trasformazione generale e complessiva degli assetti produttivi in atto da almeno mezzo secolo e suddivisibile in cinque passaggi. Il primo si è dato negli anni Sessanta, quando la “(contro)rivoluzione logistica” ha spinto la produzione verso una scala globale dove il tempo di circolazione delle merci assume tratti consustanziali alla produzione stessa. Il secondo passaggio si ha negli anni Ottanta, quando il consumo comincia a dettare e condizionare direttamente i ritmi della produzione: è la cosiddetta “retail revolution” e Wall Mart ne è stato l’attore paradigmatico. Il terzo momento si colloca all’alba del nuovo millennio con l’avvento delle aziende dot-com: il world wide web diventa territorio non solo di espansione per le relazioni sociali ma anche di conquista per nuove forme d’impresa. Il quarto passaggio coincide col crash economico del 2007/08: nascono decine di piattaforme (da Airbnb nel 2007 a Uber nel 2008) e il modello produttivo capitalista si riplasma attorno al loro sviluppo. Il quinto momento, infine, si ha con la pandemia da Covid-19. Distanziamenti fisici necessari e smart-working concorrono a rimodulare i concetti di mobilità, socialità e lavoro, accelerando una sostanziale piattaformizzazione della società.
Insomma, le piattaforme digitali hanno oggi guadagnato un protagonismo che appare oramai inscalfibile. Da un lato, infatti, costituiscono la forma d’impresa che meglio si adatta ai nuovi rapporti di produzione dove si è al contempo chi lavora e chi consuma all’interno di spazi frammentati e diffusi. Dall’altro lato, i nuovi assetti produttivi offrono loro un potere politico ed economico che le avvantaggia nella corsa al mondo di domani, un ibrido fisico-digitale incarnato dal progetto del “Metaverso”.  

| Potere | Il potere è oggi incarnato anche nelle piattaforme digitali. Parte di questo potere viene dal fatto che la generale piattaformizzazione della società, il suo definirsi su e tramite le piattaforme, finisce per favorire una sempre maggiore sovrapposizione fra infrastrutture digitali, processi di accumulazione e cooperazione sociale. Le piattaforme determinano scelte politiche, condizionano l’opinione pubblica, talvolta incrementano l’insorgenza di anomalie e di potenziali di contro-utilizzo come avvenuto nel ciclo insorgente del 2011-2013 o, più recentemente, le proteste in Cile o a Hong Kong. Il loro è un potere logistico che prima di tutto permette di estrarre e gestire flussi di dati determinando regimi di mobilità e forme di inclusione ed esclusione.
Accanto al Leviatano è cresciuto, quindi, un groviglio di soggetti extrastatuali che si intrecciano, sovrappongono, collidono e conformano nuove geografie del potere. Le piattaforme non sono dunque di per sé i nuovi Leviatani, ma certo compongono in maniera prepotente la struttura dei nuovi Stack, le pile entro cui è racchiusa la governance contemporanea che ingloba anche la sovranità statuale. Le norme stabilite dall’algoritmo si affiancano alle leggi fissate dai codici.

| Infrastrutture | Il capitale è un rapporto sociale tra persone mediato da cose, diceva Marx. Oggi, in questo ampio regime di “cose” – aggiungiamo noi – le infrastrutture occupano un posto particolarmente rilevante: sono lo scheletro che tiene in piedi la molteplicità delle interazioni sociali, su di esse corrono i flussi di merci, capitali e servizi. Nel capitalismo delle piattaforme un ruolo decisivo è giocato dalle infrastrutture digitali possedute e governate dalle Big Tech. Società come Google, Amazon o Tencent in Cina costituiscono il capitale fisso sociale-ma-non-pubblico di una società dove materiale e virtuale si fondono nella medesima realtà.
Dalla crisi economica del 2007/08 piattaforme di ogni tipo hanno “infrastrutturato” lo spazio digitale appropriandosi della cooperazione sociale ed espropriando quell’immaginario libertario che aveva trovato nel web un territorio senza padroni. Come le infrastrutture materiali, infatti, le piattaforme definiscono un certo regime di mobilità, connettono ma al contempo restringono e impongono determinanti movimenti. Difficile oggi viaggiare in Europa senza prenotare una stanza su Airbnb, avere accesso a una comunità di utenti tanto grande quanto permette WeChat in Cina, o avere la stessa offerta di ristoranti in America Latina senza utilizzare la piattaforma Rappi. Tutte aziende che non posseggono “nulla” – non una casa, un ristorante, un contenuto – se non l’infrastruttura digitale e la proprietà privata degli algoritmi che mettono a disposizione dei propri utenti. Certo, i canali “alternativi” non scompaiono, ma è evidente il ruolo egemonico che queste piattaforme/infrastrutture hanno conquistato.
Assumendo queste posizioni dominanti, di conseguenza, le piattaforme ottengono inevitabilmente un potere politico in quanto governamentale ovvero controllano, anticipano e determinano le nostre condotte: se lo Stato fonda la sua nozione di sovranità sull’occupazione di un determinato territorio, le piattaforme costruiscono il loro potere con il governano del cloud. Grazie alla loro capacità di “estrazione” dei dati, insomma, esse godono oggi di un potere di contrattazione (se non di competizione) con lo Stato stesso, come forse mai nessuno nella ormai lunga storia del capitalismo. Allo stesso tempo, in quanto infrastrutture, costituiscono un campo conteso al cui interno possono nascere nuove e inedite forme di lotta.

| SpazioTempo | Le piattaforme non sono semplicemente degli strumenti tecnologici, sono il risultato, in continua evoluzione, di rapporti sociali. Agiscono diffusamente sul pianeta innervandosi nell’eterogeneità dei differenti contesti metropolitani. Si plasmano di continuo con e su di essi. Sono ecosistemi dal forte consumo di risorse umane e ambientali che determinano regimi spazio-temporali molteplici con una capacità di reductio ad unum determinata dal possesso di algoritmi e dati. Le piattaforme rappresentano la tendenza al collasso delle scale geografiche moderne. Attraversano costitutivamente la scala nazionale, si riproducono in modo trans-locale, ibridano urbano e globale, aprono nuove spazialità di accumulazione ambendo a nuovi progetti di colonizzazione – dallo Spazio interplanetario allo spazio digitale del Multiverso. Il moto tellurico con il quale la piattaformizzazione ha attraversato, scomposto e ricomposto le spazialità rende infatti desueta la possibilità di comprensione dei fenomeni sociali, politici ed economici a partire da un loro incapsulamento in una scala predefinita.
Contrariamente a quanto avvenuto con altre innovazioni “tecniche” nella storia del capitalismo (ad es. l’organizzazione scientifica del lavoro) o con i lunghi tempi necessari per l’implementazione infrastrutturale delle ferrovie o delle autostrade, la “forma piattaforma” ha sviluppato una circolazione a livello globale pressoché simultanea. Le piattaforme tessono una trama fra tempi storici plurali, registrano il passato per anticipare il tempo futuro e sanciscono il superamento della dicotomia virtuale/reale. Detta diversamente, generano spaziotempi che non solo vanno continuamente ricondotti concretamente a infrastrutture (cavi Internet transoceanici, data centers, clickfarm, cloud computer, etc.) e assemblaggi concreti di forza-lavoro (crowdwokers, prosumers, driver, rider, programmatori/ici, etc.), ma che più radicalmente vanno compresi nell’intreccio costitutivo tra digitalizzazione e processi materiali.

| Metropoli 4.0| La dinamica della piattaformizzazione è un processo urbano che, all’interno di un più generale collasso delle scale geografiche, agisce contemporaneamente su un piano globale e locale. Questa considerazione va scomposta su due processi.
Il primo è quello che si riferisce alle mutazioni che le piattaforme digitali inducono nell’urbano consolidato trasformandolo su molteplici direzioni. In primo luogo, le agglomerazioni urbane sono il terreno ideale per l’estrazione di valore da parte delle piattaforme, che in esse trovano ampi bacini di mano d’opera disponibile, miniere di dati, alti potenziali di innovazione da sussumere. In secondo luogo, le piattaforme hanno un profondo effetto infrastrutturale. Così come nel corso degli ultimi due secoli le città sono state scomposte e ricombinate dalle reti ferroviarie, dagli assi viari per automobili, dalle autostrade, dagli aeroporti, così le piattaforme scompongono e ridefiniscono in profondità i flussi urbani. In terzo luogo, le piattaforme globalizzano ulteriormente l’urbano, incidendo sulle sue forme di proprietà, di comando, di immaginario, di attraversamento. In quarto luogo, l’urbanesimo high tech sviluppa le proprie architetture e specifici regimi di abitabilità, che sempre più somiglia a pratiche di navigazione.
Il secondo processo riguarda invece le piattaforme che forma di urbanizzazione di Internet. Così come storicamente accaduto per l’urbanizzazione (ossia: infrastrutturazione + potere politico) della campagna e degli altri spazi non-urbani, così le piattaforme hanno urbanizzato lo spaziotempo Internet dopo la prima ondata del World Wide Web di fine anni Novanta. La parcellizzazione in app gestite via smartphone, la dimensione chiusa e proprietaria, il loro potere politico e il loro agire infrastrutturale, le definisce come attrici urbane di Internet.
La congiunzione di queste due prospettive conduce a parlare dell’emersione di una metropoli planetaria 4.0 in formazione.

| Geopolitica | Troppo spesso si tende a separare entità digitali ed entità territoriali, le piattaforme dallo Stato, gli spazi di flussi dagli spazi di luoghi, la rete dalle istituzioni. Tuttavia, internet e gli attori socio-economici che lo abitano non sono neutrali, né si muovono in uno spazio etereo privo di sovrapposizioni con le diverse scale geografiche fisiche. Tutt’altro: oggi il primato dell’innovazione digitale è posta in gioco di equilibri geopolitici all’interno di un più generale processo di ridefinizione di quella che viene chiamata la globalizzazione. Se da un lato, infatti, le piattaforme striano la territorialità statuale imponendo tramite il loro potere nella gestione dei flussi norme e forme di vita, dall’altra gli Stati sono all’opera nella costruzione di alleanze con le imprese digitali o di infrastrutture autonome per il controllo e l’utilizzo dei dati. Al colonialismo digitale delle piattaforme – che penetrano all’interno degli spazi urbani per sussumerne le forme produttive e sociali – fa da contraltare il sovranismo digitale degli Stati che puntano a imporre il potere del Leviatano sulle nuove infrastrutture. Dunque, più che esaltare gli Stati come avversari e regolatori delle piattaforme, bisogna capire in che modo leggi e algoritmi, Leviatano e piattaforme costruiscono e stratificano relazioni, talvolta oppositive e talvolta cooperative.

| Macchine mitologiche | Le piattaforme non sono solo degli attori economici la cui azione ha ripercussioni sulle forme del politico e sulle relazioni sociali. Non agiscono esclusivamente sul piano materiale della produzione e dell’estrazione. Le piattaforme producono un orizzonte simbolico e valoriale che ne legittima l’operato e contribuisce a potenziarne le operazioni. Sono delle macchine mitologiche che producono una narrazione in merito al futuro del lavoro, al modello di società e al tipo di valori collettivi da incarnare.
Non a caso le piattaforme stesse sono il frutto di uno specifico immaginario neoliberale, la cosiddetta californian ideology, che combina la creatività hippie con l’arrivismo yuppie. In questa visione internet e le innovazioni tecnologiche sono gli strumenti perfetti per potenziare il carattere imprenditoriale dell’essere umano, viatico per una società più libera e ricca grazie alla piena automazione della produzione e al supporto dell’intelligenza artificiale. Questa narrazione non ha solo il compito di legittimare il potere delle piattaforme all’interno di una certa scala valoriale. Di più, ha effetti materiali concreti nella capacità di spingere il lavoro vivo verso una propria auto-valorizzazione all’interno delle dinamiche di messa a lavoro operate dalle piattaforme. Contribuisce inoltre ad attrarre costantemente investimenti finanziari senza i quali le stesse aziende digitali non starebbero in piedi, all’interno di un’economia della promessa che paventa utili sconfinati a chi riuscirà ad imporre il proprio monopolio sul mercato. Queste macchine mitologiche, dunque, occultano dei rapporti di potere e, allo stesso tempo, ne rafforzano la presa sul reale tramite la loro capacità di mettere in moto un insieme complesso di affetti, emozioni, valori e aspirazioni.

| Finanza | L’intreccio tra piattaforme digitali e finanza si sviluppa su una molteplicità di piani distinti ma intersecati. Da un lato, la finanza sorregge lo sviluppo del modello di piattaforma che trova le sue origini nella crisi economico-finanziaria globale iniziata nel 2007-2008, e ha subito un’accelerazione ancora più forte con quella generata dalla pandemia di Covid19. Il modello di piattaforma si fonda, come è noto, sul declino del tradizionale paradigma-azienda e su una logica speculativa che ha permesso ad attori come Uber, fin dai primi anni di vita, di non generare dividendi ma di avere, allo stesso tempo, alti valori di borsa motivati da un’economia della promessa di futuri profitti. Esiste tuttavia un altro aspetto dell’intreccio tra finanza e piattaforme: la svalorizzazione del lavoro su cui si fonda il modello di piattaforma, e la sua “cattura” all’interno delle infrastrutture digitali, si basano, sempre di più, sulla produzione di lavoro indebitato. Ancora una volta il caso di Uber appare emblematico: mentre i lavoratori vengono attratti all’interno della piattaforma dalla promessa di maggiore autonomia, l’indebitamento costituisce per molti la condizione necessaria per acquistare i mezzi di produzione e poter effettivamente lavorare.
Al miraggio di un lavoro “libero” e indipendente viene a sostituirsi allora un lavoro “immobilizzato” dal debito ed economicamente dipendente dalla piattaforma. La boucle est bouclée. C’è poi da considerare il modo in cui le piattaforme digitali, gli algoritmi e le blockchain stanno cambiando la finanza. Dal micro-trading agli NFT passando per le criptovalute oggi la finanza stessa si trova ad essere piattaformizzata. Con la promessa di diventare tutti investitori assistiamo a una nuova spinta verso la finanziarizzazione della società dove qualsiasi cosa può diventare un token da scambiare.

| Lavoro | Le piattaforme digitali permettono di inglobare i processi di cooperazione sociale all’interno delle logiche di valorizzazione e finanziarie. Si tratta di un meccanismo non certo nuovo, ma che il modello di piattaforma permette di sviluppare a livelli di intensità e su spazialità inedite. Al suo interno, l’erosione del tradizionale rapporto di lavoro salariato non implica certo un declino del lavoro, bensì la sua estensione e ridefinizione in nuovi luoghi e compiti, al di là di una distinzione, sempre più sottile, fra tempi di lavoro e tempi di vita. L’accelerazione della mercificazione della riproduzione sociale in particolare (intesa qui in senso ampio, come quelle attività che permettono la riproduzione della vita degli individui), generata dalla crisi finanziaria e dalla conseguente erosione della spesa sociale e dal declino della sua socializzazione attraverso i sistemi di welfare nazionali, trova nuova spinta e sbocco nel modello di piattaforma. Mobilità, alimentazione, cura, lavoro domestico… sono solo alcune tra le nuove frontiere di espansione del modello di piattaforma.

| Soggettività algoritmiche | Se il capitalismo è un rapporto sociale mediato da cose, allora il capitalismo delle piattaforme non può che produrre soggettività algoritmiche tramite l’uso di dispositivi digitali, protocolli e standard di trasmissione, applicazioni e software. Le piattaforme, in altre parole, sono attori governamentali, plasmano delle condotte stimolando dei comportamenti e delle passioni collettive.
Il cyborg non costituisce più un orizzonte politico del mondo a venire, è già qua ed è il prodotto del potere dell’algoritmo e della pervasività delle tecnologie digitali: cyborg siamo noi quando non riusciamo ad orientarci senza Google Maps o quando parliamo tramite uno smartphone con un assistente vocale che ci aiuta a localizzare il pacco che stiamo aspettando. La costruzione di soggettività algoritmiche si dà nella metropoli aumentata, nell’attraversamento dell’infosfera, nello stazionamento nel cloud, nell’interazione con l’intelligenza artificiale, negli innesti bio-ingegneristici. Ne escono sfumati, se non abbattuti, i confini che tradizionalmente si tracciavano fra essere umano e macchine: oggi viviamo vite macchiniche, standardizzate e manipolate dalla potenza di calcolo dei nuovi computer, dai big data, dalle applicazioni; e le macchine diventano viventi, sempre più fuse col bios, si embricano con alcune funzioni del lavoro vivo, replicano attività creative, costruiscono realtà parallele grazie al machine learning, all’intelligenza artificiale, ai visori VR.
Eppure, non siamo condannati a vivere come automi o ad inseguire il sogno neoliberale dell’imprenditore di sé stesso su questa o quella piattaforma. Non crediamo si debba analizzare il digitale semplicemente nei termini del dominio. Pratiche di soggettivazione autonoma proliferano nelle maglie della rete: flâneur che vagabondano per la città cercando di godere dei servizi delle nuove tecnologie senza farsi catturare dalla sete di profitto, nomadi digitali che si spostano di piattaforma in piattaforma per perseguire strategie individuali, tangpingers che rifiutano in toto la messa al lavoro delle proprie vite, conflitti diffusi dell’operaietà sociale che smascherano le gerarchie di potere dietro agli algoritmi. 

| Campo di battaglia | Le tecnologie digitali e con esse le piattaforme non sono inquadrabili semplicemente all’interno di una dinamica di dominio, il sabotaggio non è l’unica resistenza possibile. Il loro sviluppo apre piuttosto un campo di battaglia fra soggetti e forze antagoniste il cui esito non è scontato e la cui posta in palio è il capitalismo nella sua totalità. Se le piattaforme ambiscono a un mondo privo di colli di bottiglia o conflitti ma fatto solo di flussi in gradi di connettere merci e persone, dall’altra il lavoro vivo getta costantemente sabbia negli ingranaggi delle imprese high-tech per difendersi dalla costante messa a lavoro, mette in campo resistenze che in nuce contengono una visione diversa dell’uso e dell’organizzazione delle macchine digitali, sfida il potere dell’algoritmo e la concentrazione della ricchezza nelle mani di chi ne possiede i codici.
La forza del capitalismo delle piattaforme sta nella sua estrema resilienza che non si dà semplicemente nella capacità di plasmare le proprie operazioni a seconda dello specifico contesto in cui si radicano, ma anche nella costante attenzione a inglobare ciò che si genera fuori e contro la sua azione, trasformando le anomalie in variabili integrate nell’evoluzione dell’algoritmo. È in atto una oscillazione fra inclusione e sottrazione, standardizzazione e turbolenze che se da una parte ci restituisce la cifra del potere delle piattaforme, dall’altra ci mostra tutta l’irriducibile potenza del lavoro vivo. È proprio questa potenza il vero motore delle piattaforme, senza di essa i suoi standard e le sue previsioni non sarebbero in grado di far davvero presa sul reale. Come fare quindi a sottrarsi alla resilienza degli algoritmi e, allo stesso tempo, valorizzare la potenza produttiva che esprimono e della quale si nutrono?

Ed eccoci nuovamente al punto di partenza e alla questione più importante. Come agire politicamente davanti a queste trasformazioni? Diciamolo meglio. Quali alternative abbiamo davanti a partire dalle contraddizioni nelle trasformazioni in corso? Basta ribaltare di segno gli attuali rapporti di potere o sono gli stessi assetti di potere che vanno ripensati radicalmente? Permetteteci di non formulare ricette a nostra volta. Al contempo, non vogliamo limitarci a una più o meno chiara descrizione dello stato di cose presenti, ma provare a indicare alcune possibili tracce per cambiarlo. Vorremmo quindi fare uno sforzo di immaginazione politica, partendo dal reale fino a risalire al possibile. Focalizziamoci per un momento su una azienda simbolo del capitalismo delle piattaforme, una Big Tech come Amazon. Pensiamo alla sua capacità logistica di coordinare e gestire flussi attorno al globo, alla sua potenza di calcolo tale da conoscere pressoché all’istante la posizione di qualsiasi pacco, alla molteplicità di prodotti e servizi che è in grado di offrire e innovare. Bene, ora pensiamo per un istante a cosa potremmo fare se queste capacità informatiche, logistiche e produttive fossero gestite collettivamente, non per il profitto di pochi ma per lavorare meno tutt*.

Ci torna in mente uno slogan, non siamo sicuri di dove lo abbiamo sentito ma ci pare interessante: soviet + elettrificazione. Potremmo cambiarlo in: peer-to-peer e digitalizzazione. Ecco, forse possiamo agire le contraddizioni del nostro presente verso un comunismo delle piattaforme a partire da questi due principi. Se le piattaforme hanno una gestione centralizzata capace di esercitare un controllo capillare e diffuso, ribaltandone le potenzialità, possiamo anche immaginare una gestione diffusa delle infrastrutture digitali con un indirizzo politico non orientato alla rendita e al profitto ma al benessere collettivo e ambientale. Esistono tanti tipi di reti, in fondo le blockchain questo ci dimostrano. Il punto sta nel sottrarle a processi di monopolio e messa a profitto. Come? Riprendendone e distribuendone la proprietà fra tutti fino ad abbattere un regime privatistico della stessa.

Certe piattaforme hanno ruolo così infrastrutturale oramai da essere essenziali per le nostre società. Allo stesso tempo, non basta prenderne il controllo, bisogna cambiarne anche quei principi organizzativi che determinano dei rapporti di potere gerarchici e asimmetrici al suo interno. Come? Smantellandone le architetture di potere gerarchico. Peer-to-Peer! Ci hanno fatto credere che siamo in un’economia della condivisione, allora crediamoci fino in fondo, pretendiamo la proprietà collettiva affinché non ci sia alcuna proprietà. Questo implica un terzo punto programmatico: reddito per tuttx. Lo abbiamo visto, oggi sono i dati la materia più ambita. Produciamo dati sempre e ovunque e in base a questi dati le piattaforme aggiustano costantemente i propri processi di calcolo, gestione e controllo. La centralità politica univoca del salario e la sua misurazione con il tempo di lavoro sono saltati da un pezzo. Nostalgia per il fordismo non ne abbiamo, preferiamo l’automazione che allevia la fatica fisica ed estende le possibilità creative. L’importante è sottrarsi al ricatto occupazionale. D’altronde, a guardare i patrimoni accumulati da certi capitalisti di ventura non ci sembra di vivere in un’epoca di scarsità. Allora, che sia abbondanza per tutti!

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