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Quale lavoro nell’economia di piattaforma? Come costruire diritti nel capitalismo digitale

L’economia di piattaforma è dunque un campo di tensione tra istanze diverse, fra passato e futuro, fra flessibilità e sostenibilità. La sfida che abbiamo davanti è quella di trovare nuovi modelli di contrattazione e nuove forme di organizzazione dei lavoratori che possano contro-bilanciare il potere dell’algoritmo (e di chi lo possiede). Esempi virtuosi ne esistono già.

 

In questi anni l’immagine della piattaforma si è imposta sempre di più come metafora di alcuni importanti trasformazioni in corso sia nell’economia che nella società. Non si tratta, infatti, semplicemente di una nuova strategia d’impresa basata sulle tecnologie digitali ma di un diverso modo di concepire come si lavora, chi lavora e per cosa si lavora. La metafora è stata adottata inizialmente dai social media per descrivere se stessi come spazi di aggregazione e condivisione di contenuti. Successivamente si è allargata ad altri tipologie di servizi. Uber – la compagnia di San Francisco che gestisce migliaia di autisti in 632 città al mondo senza possedere alcun taxi – è diventata l’emblema di questo business model dirompente che in maniera repentina si è consolidato e affermato su scala globale. Questa “rivoluzione” prende le mosse da un luogo preciso, la Silicon Valley, e da una visione del futuro, la cosiddetta Californian Ideology, che guarda al progresso tecnologico come chiave di accesso ad un mondo senza disuguaglianze e sfruttamento ma basato sulla creatività e la libera iniziativa. Non a caso, secondo il report 2017 del Platform Strategy Summit organizzato dal MIT circa il 75% delle piattaforme mondiali vengono dagli USA.

Nascono così nuove economie basate – così viene detto – sui lavoretti (gig economy) o sulla condivisione (sharing economy). Le piattaforme si presentano come lo spazio di incontro fra domanda e offerta, fra chi mette a disposizione un po’ del proprio tempo o delle proprie risorse e chi ha bisogno di prodotto o un servizio a costi contenuti e in forma più social. Le transazioni di compravendita sono spesso monetizzate, così come sono venduti a terzi i dati delle attività che gli utenti svolgono su di esse.

È così che sorgono nuovi lavori, nuovi prodotti e nuovi servizi. Altri cambiano nei modi e negli spazi. Altri ancora spariscono, parzialmente o completamente, grazie all’automazione o alla digitalizzazione. Non tutti i lavori sono riconosciuti come tali (e perciò retribuiti).

La dimensione urbana sembra centrale sia in termini di crescita economica che di impatto sociale delle piattaforme. Queste, come detto, traggono vantaggio dallo sviluppo di internet, dei big data e delle tecniche di gestione algoritmica così come dalla diffusione di dispositivi mobili che consentono un accesso immediato e diffuso alla rete. È nelle città che queste tecnologie trovano maggiormente riscontro da un punto di vista di capacità infrastrutturale e influenza sugli stili di vita orientati al consumo.  Se, da una parte, questo permette alle piattaforme la commercializzazione di attività che prima erano svolte nel tempo libero o in forme più tradizionali (ad esempio, offrendo sevizi consegna pasti, pulizie domestiche, ospitalità, trasporto tramite app), dall’altra trasforma la vita urbana in una costante forma di imprenditorialità di se stessi: alcuni beni di consumo come la bicicletta, l’auto, la casa, lo smartphone possono essere facilmente trasformati in mezzi di lavoro. Tutti possono diventare “collaboratori” delle piattaforme. Ovviamente le motivazioni per trasformarsi in imprenditori urbani possono essere diverse; all’interno della stessa piattaforma o della medesima tipologia di servizio c’è chi lo fa per ottenere dei ricavi supplementari rispetto alla prima fonte di reddito e chi per guadagnarsi da vivere. Anche il grado di soddisfazione dei “collaboratori” varia. In ogni caso su di essi vengono scaricati costi e rischi d’impresa, spesso senza avere in cambio alcun vantaggio o certezza in termini di accesso al welfare, sicurezza sul lavoro, retribuzione.

 

(https://pixabay.com/it/pedoni-rush-hour-sfocato-urbano-1209316/)

 

L’economia di piattaforma sembra, dunque, condensare una serie di tendenze oramai generalizzate: il superamento delle forme standard di lavoro (a tempo indeterminato, svolto all’interno di tempi e luoghi definiti, inquadrato all’interno di un rapporto di subordinazione), la necessità di innovare il welfare rispetto al carattere intermittente e variegato delle nuove professioni, l’inefficacia del diritto del lavoro così come era stato concepito nel Novecento.

Tuttavia, non tutto ciò che ruota attorno a queste nuove economie sembra essere così idilliaco o esente da problemi. Dalle proteste su scala internazionale dei rider del food delivery fino al recente scandalo di Cambridge Analytica, emergono importanti questioni in termini di tutela della privacy e dei diritti dei lavoratori. In alcuni casi le piattaforme si rivelano essere poco trasparenti, orizzontali, democratiche. Piuttosto che fare semplicemente da canale di incontro fra collaboratori e clienti, spesso finiscono per svolgere una funzione di vera e propria intermediazione della manodopera oltre che gestire e coordinare in maniera opaca le attività dei propri utenti, trasformandosi in delle scatole nere al cui interno non è dato sapere cosa succede.

Molto spesso sono gli stessi “collaboratori” a rifiutare la narrazione dell’auto-imprenditorialità. In tal senso, le mobilitazioni dei rider si stanno rivelando come emblematiche dei limiti a cui è soggetta l’economia di piattaforma. Mentre il lavoro digitale diventa sempre più flessibile e individualizzato – col rischio di trasformare i collaboratori in working poor o esporli a discriminazioni di genere e razza – aumentano le richieste per il riconoscimento di tutele e diritti. Sono numerose le esperienze di sindacalismo metropolitano nella gig economy sorte in Europa in questi anni e tutte sono accomunate dal tentativo di contrastare il potere dell’algoritmo con cui le piattaforme regolano il proprio funzionamento. In tal senso, i rider rivendicano con insistenza il carattere subordinato del proprio lavoro – aspetto riconosciuto anche da alcune inchieste degli ispettorati del lavoro in Spagna, Francia e Belgio.

L’economia di piattaforma è dunque un campo di tensione tra istanze diverse, fra passato e futuro, fra flessibilità e sostenibilità. La sfida che abbiamo davanti è quella di trovare nuovi modelli di contrattazione e nuove forme di organizzazione dei lavoratori che possano contro-bilanciare il potere dell’algoritmo (e di chi lo possiede). Esempi virtuosi ne esistono già. L’Unione Europea ha da tempo iniziato a porsi il problema di una regolamentazione delle nuove economie per una crescita equa e l’Agenda per l’economia collaborativa è un primo passo in questa direzione (anche se ancora poco efficace). Diverse cooperative – la più nota è la belga Smart – stanno nascendo per sperimentare pratiche di mutualismo e forme decisionali più condivise fra i lavoratori. Infine, a Bologna – proprio a partire dalle mobilitazioni portate avanti da Riders Union, un gruppo cittadino di rider auto-organizzati – è in corso un tentativo di contrattazione metropolitana basato sulla scrittura di una Carta del lavoro digitale che possa far sedere allo stesso tavolo amministratori locali, lavoratori e piattaforme.

 

 

This contribution has been written for Fondazione Feltrinelli and it is available also here

Maurilio Pirone

PhD in Politics, Institutions, History
Project Manager for Urban Regeneration

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