Articoli

L’Arcipelago Toscano. Note per navigare domandando nell’Alluvione Planetaria

Con questo contributo, cerco di farmi spazio nel vortice di pensieri che la recente alluvione in Toscana mi ha provocato. Un intreccio di memorie, scrupoli, recenti ricerche accademiche e la sensazione che l’allagarsi sempre più frequente e disastroso delle aree in senso stretto urbanizzate necessiti – per essere agito – di numerosi cambi di prospettiva. Dagli studi di Dilip da Cunha prendo spunto per immaginare progetti “dopo il fiume” e dalla geografia, alcuni femminismi e matematiche per fondarli sulla natura eccedente, esagerante (nel senso etimologico, che straripa, sempre in esodo) dell’acqua. Entro dunque nell’urbano, con Lefebvre in una mano e Leopardi nell’altra. L’architetto sociale è il nome politico che mi appare utile ad indicare quella moltitudine operosa che – contro il Fato e l’ecologia-mondo capitalista – potrebbe legarsi in selve odorose: ginestre creative che si annodano nel disastro vivendo urbanisticamente. Ricordo, infine, che fino a 2 milioni di anni fa, la Toscana era un grande golfo. Allora, il Mar – oggi – Tirreno giungeva alle pendici dell’odierna Umbria. L’Arcipelago di Massimo Cacciari è la lettura che suggerisco per tentare di cogliere politicamente questi tempi immensi, costruire il Comune, e naufragare produttivamente nel mare in arrivo. Filo conduttore importante, dall’inizio alla fine, è la mia infanzia, il suo vento, da preferire sempre alla Storia, quando quest’ultima delude e da portare con sé quando – invece – pare accelerare.


Perché

La catastrofe non è poetica, né spettacolare. Non siamo qua per essere visibili, ma per essere utili. Siamo un fatto di per sè spettacolare. E come tale, non ha bisogno di essere spettacolarizzato. “L’amore non lo canto, è un canto di per sé”. Stiamo lontani dalle manie di protagonismo, cerchiamo di essere, piuttosto protagonisti
(da un comunicato del Collettivo di Fabbrica GKN).

Non avevamo alcun dubbio che sarebbe toccato ancora una volta agli operai dare una dimostrazione di quello che sono in grado di fare nel momento in cui c’è da darsi da fare. Questo mondo l’abbiamo costruito noi (da un intervento in assemblea gruppi solidali)

La piana fiorentina è stata colpita da una ingente alluvione. Le immagini sono completamente sovrapponibili a quelle di pochi mesi fa dall’Emilia Romagna. Forse, per estensione e durata, i danni saranno inferiori, per adesso sicuramente lo sono i morti. Perché di questo si tratta: morte e distruzione. In poche ore, i campi coltivati si sono trasformati in laghi, così le piazze, i cortili ed i garage sotterranei. Le strade sono semplicemente diventate dei torrenti, molti oggetti urbani (auto, cassonetti, fioriere, statue…) sono stati trascinati ed ammassati in cumuli casuali. Ci si muove in barca, a 100 chilometri dalla costa, si vive sui tetti in attesa del cibo, si aiuta quando si può, si recuperano cadaveri, si buttano piano piano fuori gli arredi o le merci per liberare i locali, ergendo nuove dighe di sedie, tavoli, libri ed utensili intanto che l’acqua scende. È il diario di una qualunque alluvione che colpisce un’area densamente abitata. Possono cambiare alcuni particolari, le uniformi, i vestiti (ed il numero) di chi sopravvive, magari la lingua e la fattura delle infrastrutture, ma questo è, e non lascia spazio – salvo cospicuo pelo sullo stomaco ed ingiustificabile cinismo – a metafore. Lo sanno bene i nuovi angeli del fango, e quella catena sociale che si forma nel pericolo della solidarietà. Non ha dubbi chi è coinvolto, chi si scopre debole arroccato sul tetto, e senza l’altro si trova perdutamente solo. Lo sanno tutti coloro che iniziano a partecipare alla fatica dell’aiuto, mostrando un’umanità che dovremmo tener cara ben oltre l’apice del disastro. Questa catena sociale che appare e salva, nello sforzo produttivo e riproduttivo di ricostruire in comune ciò che è comune – la vita quotidiana, le strade, le case, i campi, i fiumi – questa Bildung soggettiva per via della Bildung urbana, dove uso e scambio si confondono positivamente nel progetto di riedificazione collettiva, esprime una potenza politica, ingegneristica ed architettonica che è tempo di nominare e porre al centro. Addirittura, la Toscana risulta quasi in una posizione privilegiata per avviarci in questo navigare domandando, che è una interrogazione produttiva di spazio-tempo, un indagare immediatamente operativo sull’infrastruttura materiale coinvolta. Nell’immaginario ed in alcuni discorsi che provengono dalla critica sociale, la regione ha infatti assunto il ruolo iconico di territorio edenico dove, a tratti, l’umanità e la natura vivrebbero in armonia. Fiabe di virgiliana memoria si sono fatte, in questi borghi, tra queste colline, terreno vivo per i miliardari del Chiantishire e per coloro che – contro e fuori (a loro dire) dalla metropoli – hanno immaginato progetti locali, bioregioni e comunità da opporre alla trasformazione neoliberista dell’ambiente e delle soggettività. A Quarrata – città attualmente sott’acqua alle pendici del Montalbano – ho vissuto per 18 anni, ed anche io coltivo lì il mio piccolo uliveto. Se riesco ci metto pure i pomodori e le zucchine. Mio nonno – però – diceva che la terra è una schifezza “perché è bassa” e “ci vuole fatica per mangiarci”. Perciò appena ha potuto ha smesso di fare il contadino, la verdura la comprava al supermercato e – finché con noi – mi pregava di fottermene di quel campo. Dal canto mio, non ho mai creduto di costruirci un progetto di vita, né di vederlo figura di un’umanità redenta, autarchica ed autosufficiente di metro quadrato in metro quadrato come i sovranisti alimentari desidererebbero. Ed è di questo che, da qui, ormeggiato in questa palude, a fronte della devastazione, vorrei parlare. Dell’Arcipelago Toscano da costruire dentro una natura immensa e distante, senza sogni da balcone, per muovere oltre l’ecologia capitalista, rilasciandoci e riappropriandoci di quelle capacità creative che – sole – fanno valer la pena, il ponos – scrive Cacciari – del Comune. Cerco dunque la forza di un pensiero radicale (che vada al fondo) e disperato, che non versi lacrime per le rose. Non consolatorio, non debole, come radicale, non consolatoria e non debole è l’alluvione.

Cambio di prospettiva 1: dopo il “progetto-di-fiume”
Partiamo spostando lo sguardo: non ci sono alluvioni locali, ma l’alluvione planetaria. C’è una marea globale che si alza e si abbassa, una massa immensa di acqua dal cielo, dall’oceano, dai laghi e dai fiumi che permea mondialmente la vita urbanizzata. Fidiamoci dell’architetto indiano Dilip da Cunha, ad esempio. In The Invention of Rivers (2019), l’autore osserva il suo sub-continente dal punto di vista di ciò che chiama ubiquitous wetness. L’india – scrive – giace nell’oceano di pioggia che la circonda, secondo temporalità e spazialità multiple, non sovrapponibili. Ubiquitous wetness non è un ist, non si può gettare di fronte secondo quel movimento intellettuale, rappresentativo e produttivo di spazio-tempo che ha contraddistinto la costituzione del mondo come Immagine. Piuttosto, è viscosa, si sente sulla pelle e per secoli, è nei ghiacciai dove si rapprende e nei paesaggi che si creano quando le nuvole si riversano al suolo, eludendo “l’occhio e la superficie, raggiungendo tutte le cose” (p. 232). Sindhu è questo “orizzonte aperto” (Ibid.) che – benché termine sanscrito traducibile con “oceano” – si riferisce a qualcosa di diverso dalla vasta massa d’acqua comunemente intesa. Piuttosto è “un oceano dell’elemento umido” che “confonde la mappa geografica” poiché comprende “la terra, l’aria, la flora e la fauna, persino il mare” (Ibid.). Diventa Indu (il nome del fiume specifico in cui è confluita la più vasta etimologia di Sindhu) solo se terrificato, se ridotto al suolo: inventando i fiumi come tracciato. Il sub-continente indiano è andato infatti incontro a tale forma e strategia ingegneristica, a tale invenzione logico-infrastrutturale a partire dalla campagna di Alessandro Magno del terzo secolo a.C. e per tutta la stagione coloniale moderna. Egli per primo “catturò” (p. 28) sulla mappa cinque fiumi: Jhelum, Chenab, Ravi, Beas e Sutlej. Non riuscì però a raggiungere il Gange che – probabilmente – vide solo “con l’occhio della mente” (p.30). Mediante tale anticipazione cartografica dell’ambiente operata da Alessandro, la “cosa” fiume iniziò ingegneristicamente ad installarsi, a colpire il terreno, ad esistere, e ciò solo poiché prima conosciuto come Immagine, cioè tracciato, astratto, pro-gettato sulla mappa, di cui il terreno deformato ha iniziato a diventare dunque copia. Scrive infatti l’autore: “la capacità di questa linea di essere segnata sul terreno, riprodotta in scala su una mappa e iscritta come immagine, l’ha resa indispensabile per il progetto di fiume” (p. 18). Perciò – nel cambiamento climatico ed in ottica non coloniale – da Cunha suggerisce di immaginare “dopo il fiume”, nella premessa che non c’è niente di naturale in loro, che sono piuttosto artifici umani (p. 290). Fidandoci, si tratta allora di pensare altri artifici, di assumere l’ingegneria politica come terreno operativo di contesa per costruire infrastrutture “progettate nelle e per le precipitazioni” (p. 293), dal momento che “ci vorrebbe uno sforzo non da poco a ad individuare un fiume nei monsoni” (p.40). Non c’è però da credere – e questa palude che vedo me lo conferma, nonché il ricordo delle mille apparse all’improvviso, di Derna distrutta a Settembre – che l’India sia un altrove, un laggiù. L’umidità è ovunque ben oltre la valle dell’indo, permea tutte le cose, per di più all’epoca dell’innalzamento dei livelli del mare e dell’incremento delle inondazioni. Sembra precipitosamente uscir fuori di metafora quella “stagione dei monsoni” con cui Merrifield (2013) allude (intrecciando topoi lefebvriani ed althusseriani) al nuovo terreno della rivoluzione urbana, dove la pioggia degli atomi-corpi in lotta si aggrumerà in tempeste come fu il movimento Occupy. Insieme a da Cunha, lo sa la collega Anuradha Mathur , con cui lavora a numerosi progetti per approssimare l’oceano di umidità che si insinua dappertutto, ed il conseguente “richiamo della giungla” che preme alle porte delle metropoli. Fidiamoci e prendiamo concretamente sul serio, allora, i report IPCC (2014, 2019) e le centinaia di studi che vi hanno contribuito: la crescita del volume degli oceani è irreversibile, entro il 2050 si assesterà ad un innalzamento mondiale medio di circa 0.5 metri, ma da lì in avanti le curve si aprono, dipendendo da troppi fattori di incertezza. Entro il 2100, con una popolazione prevista di circa 10 miliardi di persone concentrata soprattutto in aree costiere, il 10% sarà direttamente esposto a tutti i pericoli connessi. Senza contare – ma questa differenza perde di significato se si osserva dal punto di vista dell’umidità ubiqua – le inondazioni dovute ad acqua dal cielo o da scioglimento. Sono open-access online alcune banche dati sulle alluvioni globali, dove aver numerica contezza dell’estensione del fenomeno e delle proporzioni. Adesso parliamo di qualche cittadina in Toscana, nel 2011 in Kazakistan un’inondazione ha causato 70 mila sfollati e coperto un’area complessiva di quasi due toscane. Fidiamoci allora anche di Astrida Neimanis, femminista ed antropologa, lettrice di Haraway e come lei creatrice di figure e concetti. Nel suo Bodies of Water (2017) ci dice due cose da tenerci strettissime durante l’Alluvione Planetaria. Primo: che l’acqua non è una fantasia, una metafora, ma un elemento estremamente materiale. Secondo: che è razionalmente inesauribile, non comprensibile, i cui movimenti complessivi in parte ci sfuggono e ci restano sconosciuti. Ciononostante, e perciò, è “ciò che ne facciamo”. Dobbiamo stare con questo problema, ci dice Neimanis, proprio qui – nonostante tale “margine di opacità”, direbbe Glissant (2007) – si tratta di essere responsabili e lucidi: di agire, a questo le servono i concetti, a fronte della grandezza e dell’oscurità. Lo sanno poi bene gli ingegneri ed i matematici che in Olanda hanno costruito la regione “intanto che Dio si occupava del mondo” (così recita un proverbio). Lo sanno bene perché, dopo aver calcolato i volumi annui di acqua dalla Germania sui dati di fine ‘900 ed aver allargato fiumi, diviso città ed allagato fattorie per far spazio alle inondazioni, adesso – nel cambiamento climatico – non possono dire se queste radicali operazioni ingegneristiche incrementeranno effettivamente la sicurezza dei 17 milioni di olandesi che abitano il Delta del Reno meno naturale che esista. Perciò dovranno fidarsi – e noi con loro – di Philip Steinberg e Kimberley Peters, ad esempio, geografi e geografe che studiano il mare. Quest’ultimo, ci dicono, è tutt’altro che una metafora, ma una turbolenta materialità che si sviluppa secondo una spazio-temporalità multipla e non scalare. Perciò, scrivono, è piuttosto un Hypersea (2019) un iper-oggetto che si dà sempre oltre se stesso, sempre al di là dello sguardo e del progetto con cui lo approssimiamo.
Di fronte all’Oceano di pioggia che ha colpito oggi la Toscana, ieri Derna e poco prima Ravenna, alle parole di questi studiosi e studiose si sono aggiunti i fatti. Il lago mediterraneo ha perso le fattezze di pozza misurabile, di cosa che sta a disposizione dell’occhio (lo sanno bene gli olandesi, che dicono “see” il lago, radice del vedere). Si è invece rivelato eccesso, è stato pelago, i cui marosi non portano né guerra né pace (affari sociali), ma – procedendo verso nessun luogo (scrive Cacciari) – possono mettere le navi in movimento. Tumultuose le sue coste, insanguinati i fondali, tempestose le penisole che ci si insinuano. Mentre vedo la città dove sono nato quasi distrutta, divelta dal suolo dove – ora si capisce – non era che ancorata, non certo radicata ancestralmente, mentre la vedo mi chiedo perciò come si possa – volenti o nolenti – negare la forza dell’acqua, la tragedia ontologica che rivela, e dunque rivolere solchetti o torrentucoli, fiumiciattoli. I Luoghi: estatico e panteistico toccarsi – a volte – di alcune estreme sinistre e destre radicali. La possente e mortifera concretezza delle alluvioni spazza via ciò che trova, compresi gli idilli – immaginati o realizzati. Non se ne cura, come il marmo di chi – disperatissimamente – discorre alle tombe dei cari. Quid tum?

Pliocene

Cambio di prospettiva 2: dimenticare le ennesime nature, prendere l’urbanistica, creare l’ambiente ed ennesime opere
C’è una sensazione – una Stimmung se volete – propria di alcun ambiente specifico, ma generale. Essa va chiarita, detta, è un punto che eccede l’approssimazione dell’ecologia-mondo capitalista ed il surplus ecologico su cui si è retta. Bisogna sentirci nel nulla: in 13 miliardi di anni senza Dio né destino, nel deserto siderale dove solo il Logos ci rende il cadere migliore, estrapolando progetti dal casuale sterzare degli atomi. E dove dunque non ci resta che quello, la cui etimologia è il sale dell’ingegneria e dell’architettura anche: il legare le parti, farne terreno comune, infra-struttura. Bisogna prendere sul serio – nell’Alluvione Planetaria – questa gigantesca condizione cosmica che si insinua fino al gene, come Giacomo Leopardi ha fatto e Remo Bodei (2022) gli riconosce senza mezzi termini. Perciò, ora più che mai – in barba agli ascetismi – è tempo di teoria e metafilosofia come (con Marx) la chiama Lefebvre, di creare sempre la ragione dall’Aperto, di odiare quel vuoto, di chiamarci-contro e plasmarci-contro di esso – erta la fronte, armati e renitenti al Fato, direbbe il recanatese. Poiché quel nulla non è una metafora, una rappresentazione, né può ridursi a sede di speculazioni astratte nel senso più semplice dell’aggettivo. È vero sì, ma arido (scriveva al Giordani): è fatto (anche) di trilioni di trilioni di tonnellate di materia che, per quanto attiene loro, possono solo ignorarci ed ucciderci: è il nostro – ancora con Leopardi – basso stato e frale. Ecco allora che l’arbitrio delle ginestre che si legano in odorate selve può essere salvifico: Logos (cioè cura, preoccupazione, non forsennato orgoglio) o barbarie, di questo è tempo di fronte all’alluvione. Di progetto comune, di grandi opere del genio comune per strappare pienezza di vita a questo silenzio siderale che se ne fotte. E, così, muovere anche oltre quell’ecologia-mondo che – mistificandolo – ha aggiunto morte a morte.
La palude toscana che vedo è di tutto ciò immagine. Non è neanche questione di contare le erbacce nel fiume esondato, di fare le pulci a questo o quell’altro sindaco. Entrambi, semplicemente, condividono le stesse sbagliate premesse. La messa in sicurezza delle zone urbanizzate – questo ci rivela l’acquitrino, i dieci morti e le case sommerse – non può passare per due tagliaerba. Deve avere un coraggio radicale, deve darsi nelle dimensioni della Bigness, non dell’orto. Deve rispondere al gigantesco con il gigantesco. Non si può – è cieco o insostenibilmente cinico – ignorare la tabula rasa che l’acqua ha per qualche giorno imposto. Arida e fetente, ma vera. I nostri campi si sono fatti laghi, a centinaia, prendendosi l’acqua del cielo e dei fiumi (ci vorrebbe – per parlare dell’Alluvione Planetaria – una lingua come l’islandese, che ha 27 parole per dire “neve”, o come l’arabo che, come ci ricorda Tahar Lamri, ne ha 60 per dire “amore”). Non fondamenta, ma àncore pronte a mollare gli ormeggi, a trasformarsi, a vivere trasformandosi nella Grande Mutazione alle porte: ciò serve, naviculae, alle nostre città-porto. Grandi opere del genio comune, parto del logos urbano di quell’architetto sociale che sta carotando i nuovi fondali (delle cucine, delle biblioteche o dei parchi-lago) alla ricerca di superstiti ed oggetti smarriti, che interroga, piega e trasforma l’infrastruttura per ricostruire in comune ciò che è comune, ed averne cura, e difenderlo da speculatori e cantastorie. Sono queste amicizie sì, ma “stellari” , che ci si aprono all’orizzonte, dove dal movimento infinito dell’acqua ubiqua si possa guadagnare la buona hybris della creazione sociale, non già l’idiozia di poterlo – quel movimento – ridurre a Uno: fosso attorno alla città di Utopia, o terramare.
Per navigare tale arido vero e muovere, contemporaneamente, oltre il capitalismo e lo Stato bisogna allora spingere Lefebvre fino in fondo. Bisogna ricordare cosa è la rivoluzione urbana, in che modo ne è potente l’urbanizzazione della società. Non di un episodio si tratta, non di una sostituzione semplice in qualche luogo di comando. Per il francese (1968), essa consiste nel farsi sociale della pratica urbanistica, nel riappropriarsi – da parte del proletariato – della produzione tecnico-politica del campo urbano (dei suoi spazio-tempi e morfologie) per superare le alienazioni. Tra cui, aggiungo, quella rispetto al non-umano. Di questa rivoluzione urbana, di tale democrazia urbana radicale – come la chiama, appunto, ne La Révolution Urbaine (1970) – è potente, secondo Lefebvre, l’urbanizzazione della società. Qui è convocato – io credo – l’architetto sociale quale soggetto collettivo e produttivo che, tempestosamente, supera a decisioni e cemento, passamontagna e scalpello, l’idiozia delle scienze separate, delle speculazioni e fa l’urbano. Per Lefebvre – e dunque per noi, io credo, di fronte all’Alluvione Planetaria, crisi di una ecologia mondo ed al contempo rivelazione del fondo arido su cui ogni essere non può non crescere – è sul terreno della plasticità senza limiti (Lefebvre, 1965) che quest’ultimo va creato, e va creato come urbano. Come materia da modellare, mediazione tecnico-politica, né riducibile a mero oggetto sensibile (il “fare una casa”, dove telos e forma coincidono), né sublimata nel “modo d’esistenza speculativo delle entità, degli spiriti e delle anime, libero da vincoli e collegamenti, in una sorta di trascendenza immaginaria” (2014 [1968], p. 56). Modellare e malleare, questo fa l’architetto sociale, il proletariato della rivoluzione urbana che si è fatto società. Dobbiamo ricordarlo – senza ricadere in fiabe virgiliane – quando si apre lo squarcio ecologico e ci troviamo dentro la crisi climatica. La terra continuerà a “soffrire” (patiètur) l’opera, ed “omnis feret ominia tellus” (Virgilio, Egloga IV, vv. 39-40) solo mediante l’ingegneria ed un logos urbano radicalmente democratico. È tempo di tale macchinica poesia, di fare l’essere, di prognosi ingegneristiche non inutilmente “critiche” o speculative, ma operativamente trasformative, così tuona Lefebvre in Metafilosofia (1965). L’essere vero è creazione, è poiesis, è urbanistica e produzione di mondo, come per il Leopardi di Toni Negri (1987): trionfo di forza da dietro le sbarre. Nella fatica, certo, ma dell’opera, il cui futuro non risiede nell’arte ma – di nuovo con Lefebvre – nell’ urbano, nella comune planetaria da costruire. Ecco allora che di fronte al turbolento silenzio dell’alluvione, si aprono orizzonti di vita la cui pienezza impossibile solo un vero nichilista scambierebbe con la materia. Mentre Leopardi disperato grida “Fango è il mondo!”, costoro invece quasi sembrano felici, sublimamente, del selvaggio (wild) che si “ribella” e della melma che ci siamo trovati in casa.
Nella crisi della natura-come-esterna, è quindi tempo di prendere sul serio anche le parole di Moore, di pensare, cioè, il cambiamento sociale come produzione di ambiente. Di usare il metabolismo non come aggettivo qualificativo di una relazione, ma strategia operativa sul clima, come – marxianamente – indicatore della pratica trasformativa di mondo attraverso cui sola si risolve l’alienazione tra uomo e natura. Non si tratta di ri-colpire con le stesse infrastrutture e concetti (la città, la campagna, la Natura) che ne hanno edificato la frattura, né tanto meno di esimersi dal colpire, godtrick rovesciato cui si incorre a ripopolare di anime e Dèi ogni prato fiorito. Piuttosto, ci dice Moore a prenderlo sul serio e spingerlo fino in fondo, è tempo di produrre nel campo della vita, di attraversare la soglia delle tecniche e fare mondo, non di trasferire “nuovi” progetti ideologici sul terreno. Oikeios è tale rete aperta irriducibile ad alcuna forma, va assunta – egli sostiene – quale “perno storico” del cambiamento. Liberiamoci dalla nostalgia e dall’utopia, impariamo da Singapore e scagliamo contro la Bigness delle istallazioni per pochi, la vita urbanistica della moltitudine, del proletariato che si è fatto 99%: architetto sociale. Buttiamo fuori la natura dalla porta, senza farla rientrare moltiplicata dalla finestra. Ennesime opere, di ciò abbiamo bisogno per vivere bene nella grande mutazione climatica ed attraversare plasticamente la tragedia ontologica in social catena.

Francesco Longo, Livorno, Terrazza Mascagni

Cambio di prospettiva 3 – E’ meteo di agire, all’Arcipelago!
Nel Pliocene (5-2 milioni di anni fa, millennio più millennio meno) il Mar Tirreno inondava l’attuale piana fiorentina, fino alle zone dove sarebbero sorte Siena, Pienza, i noti borghi del Chiantishire ed i viali coi cipressi che conducono alle iconiche cascine con riscaldamento a pavimento, piscina e cantine dietro porte blindate. Atolli di ricchezza, design e silenzio oggi, isolotti un tempo circondati dalle acque profonde della Val di Chiana, da cui forse spuntavano scogli che avrebbero dato i nomi Montalcino, Montefollonico, Montepulciano. Pesci che nuotavano nel buio, laddove adesso la luce matura alcune tra le uve più pregiate del mondo. Atolli che conosco bene, nella cui terra ho scavato sin da bambino, per scoprire le radici dell’oro e della magia che appare in superficie (avventura infantile di cui ampiamente beneficia chi non vive sotto un cielo di bombe, e che mai dovrebbe – perciò – concedersi il privilegio di dimenticare). Col tempo, ho conservato molte conchiglie fossili che scovai tra le zolle arate o durante le vendemmie. Il mare, da quelle parti, non se n’è mai andato. È rimasto come ombra che lavora dietro la luce, che il grano giallo riflette ed il fieno secco sembra negare. Arcipelago prima del primo ominide, arcipelago arso dal sole oggi, atolli senza logos nel Pliocene, isolotti progettati nel presente antropizzato. Arcipelago che solo la tecnica rende possibile.
Ai geologi questo filo annodato attraverso milioni di anni fa ridere. Perciò – tutt’ora – si rifiutano di sancire l’Antropocene. Per loro è metafora, questa che per noi è diventata pietra miliare. Ed è pur vero che nessuna politica può spingersi così a fondo, così ampiamente nel tempo. Ci è politicamente – e giustamente – inattingibile il Pliocene, foss’altro per la semplice ragione che non c’era allora società. Forse. Forse intendo ci resta fuori. Forse è sbagliato non credere che la nostra specie possa realmente innescare mutazioni geo-fisiche tali da farsi epoca, e non credere che anche quei così ampli tempi della “natura” debbano essere approssimati dalla politica, dal logos produttivo di mondo e – talvolta – buona vita in comune. Se, come i report IPCC mostrano, il mare dovesse veramente alzarsi di 7 metri da qui al 2300, non sarà certo metafora il viaggio nell’Italia dell’Antropocene che si figurano Mauro Varotto e Telmo Pievani (2021). Stiamo parlando di un tempo piccolo, di un “avanti” tanto quanto è “indietro” la Rivoluzione Francese i cui echi tuonavano a Parigi coi gilet gialli 5 anni fa.
Dovremmo prendere allora sul serio il fatto che il tempo è concreto. Al punto di assumere che il meteo della contesa, da piegare decidendo di malleare il campo-della-vita e muovendo oltre l’ecologia-mondo capitalista, quel meteo è adesso, è l’Alluvione Planetaria. Dall’Ulisse di Horkheimer e Adorno abbiamo imparato che non ci si affranca dal mito dando sede agli dèi nell’arcipelago, che l’eco del primo continuerà a tuonare nei nostri nomi. Di tale ombra dietro tutte le cose, mai il Logos si libererà, poiché sempre nasce decidendosi, nominandosi, dentro e contro di quella. Ciò è il gesto che segna lo sforzo urbanistico del Comune, al di qua del quale solo è possibile – scrive Cacciari in una pagina bellissima de L’Arcipelago. È qui allora che dovremmo forse mettere la nostra xeno-famiglia a lavoro, in quell’intreccio di buona urbanizzazione planetaria e forza scrosciante del mare che agita le pagine del filosofo italiano. Senza nuovi panteismi, ma navigando al Bene della moltitudine, bene possibile solo in virtù della corrente spostante dell’Oceano e dell’amicizia stellare che a quella – e tra noi – ci lega:

Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
e questa siepe, che da tanta parte
dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quiete
io nel pensier mi fingo, ove per poco
il cor non si spaura. E come il vento
odo stormir tra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce
vo comparando: e mi sovvien l’eterno,
e le morte stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei. Così tra questa
immensità s’annega il pensier mio:
e il naufragar m’è dolce in questo mare.

Così, magari, dopo il pantano e la palude, sarà per la prima volta Arcipelago Toscano, dall’isola d’Elba a Chianciano Terme, navigando per tutte quelle singolarità che troveranno porto dentro – e non fuori – l’archipolis comune.


Bibliografia parziale

Bodei, R., Leopardi e la filosofia, Mimesis, Sesto San Giovanni, 2022.
Cacciari, M., L’Arcipelago, Adelphi, Milano, 2017 [1997].
Da Cunha, D., The invention of rivers, University of Pennsylvania Press, Philadelphia, 2018.
Glissant, E:, Poetica della Relazione. Poetica III, Quodlibet, Macerata, 2007.
Lamri, T., I sessanta nomi dell’Amore, Fara, Rimini, 2006.
Lefebvre, H., Il Diritto alla Città, Ombre Corte, Verona, 2014 [1968].
Lefebvre, H., Metaphilosophy, Verso Books, London, 2016
Magnaghi, A., Il Progetto locale: verso la coscienza di luogo, Bollati Boringhieri, Torino, 2010.
Merrifield, A., The Politics of the Encounter: Urban Theory and Protest under Planetary Urbanization, University of Georgia Press, Athens, 2013.
Negri, A., Lenta ginestra. Saggio sull’ontologia di Giacomo Leopardi, SugarCo, Milano, 1987.
Neimanis, A., Bodies of water. Posthuman Feminist Phenomenology, Bloomsbury Publishing, London, 2017.
Nietzsche, F. La gaia scienza, Adelphi, Milano, 1977.
Peters, K. & Steinberg, P. (2019). The ocean in excess: Towards a more-than-wet ontology. Dialogues in Human Geography, 9(3), 293-307.
Pievani, T., Varotto, M., Viaggio nell’Italia dell’Antropocene, Aboca Edizioni, Arezzo, 2021.


Foto di copertina di Michele Lapini, Campi Bisenzio.

Articoli Correlati