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Piattaforme, scatole nere e tempeste. Passato e presente del capitalismo digitale

Dopo anni di incertezze a causa della grande recessione scoppiata nel 2007, il capitalismo globale sembra aver ritrovato slancio attraverso lo sviluppo di nuove economie come la sharing e la gig economy che fanno affidamento sullo sviluppo delle tecnologie digitali. Alcuni tra gli economisti più influenti – tra cui il direttore del World Economic Forum, Klaus Schwab – sostengono sia in corso una quarta rivoluzione industriale[1]. Altri – come vedremo più avanti – preferiscono parlare di capitalismo digitale o di piattaforma[2]. Nel primo caso si insiste sui processi di automazione e digitalizzazione legati, soprattutto, all’industria pesante. Nel secondo caso, invece, si mettono al centro nuovi modelli di business che sfruttano le potenzialità organizzative e inclusive delle tecnologie digitali. La metafora più utilizzata per descrivere le forme di impresa alla base della gig e della sharing economy è quella della piattaforma: uno spazio liscio e piano all’interno del quale si sviluppano flussi, una mobilità continua, l’incontro tra clienti e fornitori, ma anche pratiche di condivisione, forme di socializzazione e un’etica della partecipazione. Proprio per questo molte piattaforme digitali rifiutano categoricamente l’appellativo di “imprese” tout court – aspetto importante sul quale mi soffermerò più avanti.  Eppure questo modello o strategia viene sempre più indicato come il futuro del capitalismo. O, meglio, di una società post-capitalista che ha superato il concetto novecentesco di lavoro (salariato, contrattualizzato, subordinato) e i conflitti e le diseguaglianze che da questo erano generati. Da una parte, queste innovazioni hanno origine al di fuori di contesti di mercato (si veda, ad esempio, la storia di internet[3] e la sua successiva commercializzazione legata alla bolla delle dot-com) e impongono al capitale di adattarsi a nuovi stili di vita. Dall’altra, riformulando l’adagio «dalla fabbrica alla società», possiamo fare un passo ulteriore e notare come secondo Nick Srnicek le piattaforme non costituiscano semplicemente un nuovo modello aziendale ma «un potente tipo nuovo di società»[4], laddove i rapporti di produzione finiscono per estendersi a tutte le relazioni sociali fino ad assurgere a «forma politica»[5].

Eppure, nonostante quest’aura di democrazia digitale e la retorica della fine del lavoro, molto spesso le piattaforme assomigliano maggiormente a delle scatole nere (black box): non si limitano a creare spazi digitali di aggregazione fra utenti alla pari; piuttosto costituiscono un’infrastruttura digitale e una catena logistica che riplasmano completamente i processi produttivi, i soggetti al lavoro, le forme del consumo e le regole del gioco in maniera opaca e verticistica. Detto altrimenti, dietro la metafora egualitaria della piattaforma si celano rapporti verticali e asimmetrici: le piattaforme sanno tutto (o quasi) di noi, mentre noi sappiamo poco o nulla di loro. E sapere è potere (economico in primis, ma anche politico). Le piattaforme, infatti, estraggono una mole impressionante di dati dalle attività degli utenti per poi venderli o utilizzarli. Allo stesso tempo, influenzano sempre di più il dibattito pubblico e le decisioni dei governi in tema di privacy, proprietà, sviluppo.

Come costruire un approccio critico a queste nuove forme di impresa, la cui logica algoritmica e manageriale resta impenetrabile ai vari soggetti coinvolti e la cui risonanza si estende alla società in generale? Quello che vorrei proporre è l’elaborazione di uno sguardo logistico come principio metodologico in grado di scardinare l’opacità e l’asimmetria delle piattaforme. Lo sguardo logistico mette a fuoco effetti e resistenze generati dalle piattaforme attraverso una mappatura degli assemblaggi, delle catene, delle connessioni, dei punti di condensazione o di rottura, dei canali, dei corridoi, degli hub all’interno dei quali queste agiscono. Le piattaforme, dunque, non solo come infrastrutture più o meno neutrali, ma anche come attori economici, politici e culturali. Emerge così un ventaglio di processi in atto – dai tentativi di legiferazione alla contrologistica esercitata da alcune soggettività posizionate all’interno dei processi produttivi contemporanei e globali quali i facchini della logistica e i riders del food delivery – che colpiscono le piattaforme come tempeste e ne bloccano flussi e affidabilità. Alcuni di questi processi possono essere interpretati come il tentativo di scardinare le scatole nere per riappropriarsi della possibilità di organizzazione e di generare forme autonome di cooperazione.

Nella prima parte dell’articolo proverò a indagare meglio la metafora della piattaforma, sia da un punto di vista simbolico che genealogico. Mi soffermerò infatti sul tipo di narrazione del lavoro e di società che veicola e su alcune stratificazioni genealogiche sedimentate in questo modello d’impresa. Nella seconda parte darò spazio invece a quello che la metafora non dice. Soprattutto, cercherò di far emergere come l’immagine della piattaforma sia indissolubile dal riproporsi – in veste nuova – di alcuni processi tipici del modo di produzione capitalistico: sussunzione, accumulazione, recinzione. Queste trasformazioni in atto saltano all’occhio di uno sguardo logistico che si focalizza sui punti di conflittualità. Nella terza e ultima parte dell’articolo mostrerò come questi processi capitalistici siano tutt’altro che lineari ma terreno di scontro fra istanze e soggetti diversi.

La metafora della piattaforma

 Come anticipato, la metafora maggiormente ricorrente per descrivere le imprese più dirompenti della sharing o della gig economy è quella della piattaforma. Va altresì notato – anche se non mi soffermerò particolarmente su questo aspetto – che si tratta di modelli di business che hanno preso sempre più piede a partire dagli anni successivi alla crisi, la quale ha agito in modo da accelerare e potenziare alcune trasformazioni tecnico-produttive già in corso. Quello che invece qui mi preme è: a) evidenziare alcuni degli aspetti simbolici che questa metafora veicola come l’idea di una democrazia digitale o di un presunto «comunismo del capitale»; b) far emergere alcune delle stratificazioni storiche sedimentate all’interno di questo paradigma, in particolare lo sviluppo della logistica in seguito alla perdita d’egemonia del modello fordista e l’innovazione tecnologica figlia dell’ideologia californiana della Silicon Valley.

Quello di piattaforma, ovviamente, è un concetto che può assumere diverse rappresentazioni. Pensiamo alle piattaforme petrolifere che estraggono materie prime dal sottosuolo. Oppure alle piattaforme delle stazioni che consentono l’accesso ai servizi di trasporto. O alle piattaforme come punto di osservazione e azione privilegiato. Proverò a mostrare come tutti questi diversi aspetti – la capacità estrattiva, l’accesso a spazi e servizi, il potenziamento del raggio d’azione soggettiva – sono ripresi dall’immagine delle piattaforme digitali.

Da un punto di vista temporale, l’uso della metafora della piattaforma all’interno del web si è dato dapprima da parte di alcuni social media per descrivere le attività che era possibile svolgere per loro tramite; in un secondo momento si è esteso a tutta una vastissima gamma di servizi offerti sia online che offline dalle digital companies. Col termine piattaforma, infatti, la lessicografia dei social media intendeva un’infrastruttura di programmazione sulla quale potevano essere costruiti altri software. A questa accezione tecnica si è da subito affiancata una più comunicativa di piattaforma come spazio digitale all’interno del quale tutti possono parlare, partecipare, socializzare. Come evidenziato da Tarleton Gillespie, nel 2010

social media companies like YouTube and Facebook were beginning to use the term to describe their web 2.0 services, to their users, to advertisers and investors, and to themselves. Now social media companies have embraced the term fully, and have extended it to services that broker the exchange not just of content or sociality but rides (Uber), apartments (AirBnB), and labor (Taskrabbit)[6].

Le piattaforme, infatti, promettono ai propri utenti l’accesso a spazi digitali aperti all’interno dei quali questi possono partecipare in maniera libera, condividere contenuti che veicolano idee ed emozioni, scambiare prodotti e servizi mentre loro (le piattaforme) svolgerebbero una semplice funzione di garanzia e imparzialità.

A riguardo, è interessante notare come anche il concetto di condivisione abbia avuto la stessa traiettoria semantica di quello di piattaforma, partendo dal funzionamento dei social media e della comunicazione digitale per approdare a una serie di attività di carattere maggiormente economico. Questo passaggio è ben sintetizzato da Nicholas John:

The metaphor of sharing is central to the workings of social media and indeed to computer-mediated communication in its broadest sense. Online sharing includes posting statuses, photos and videos; it includes tweeting and blogging; it also includes sending information (a file, someone’s contact details) through email or a messaging service such as WhatsApp. So central is sharing to our digital lives that it can be considered the constitutive activity of social media. In recent years, moreover, online sharing has diffused into the applications that constitute the so-called sharing economy including services like Uber and AirBnB, where sharing gives this new field its digital and social flavour[7].

La metafora della piattaforma si è rivelata talmente efficace da diventare paradigmatica di una trasformazione più generale del web. Anne Almond, ad esempio, parla di platformization[8] di internet, intendendo con ciò l’affermazione della piattaforma digitale come modello economico e infrastrutturale dominante basato sulla capacità di raccogliere ingenti quantità di dati. Le pratiche di condivisone e partecipazione degli utenti – che abbiamo visto essere incorporate e potenziate dalle piattaforme – diventano la materia prima per queste attività estrattive. Nel loro libro De platformsamenleving: Strijd om publieke waarden in een online wereld, José van Dijck, Thomas Poell e Martijn de Waal estendono la “piattaformizzazione” fino ad includervi non semplicemente aspetti tecnico-informatici del web, ma anche fattori economici, sociali e politici[9]. Le pratiche di condivisione all’interno di infrastrutture digitali di comunicazione sono dunque diventate in breve tempo elementi di scompaginamento di tutta una vasta gamma di mercati e fattori di riorganizzazione delle relazioni produttive con un impatto complessivo sulla società e sulla politica.

La metafora della piattaforma – ripetiamolo, strettamente connessa a quella della condivisione – non veicola semplicemente una certa rappresentazione di alcune trasformazioni in corso, ma ne fornisce anche una valutazione in termini di valori[10] veicolati quali l’equità, l’eguaglianza, la socialità. Questi aspetti etico-politici delle piattaforme sono fatti propri da diverse interpretazioni del capitalismo digitale, spesso accomunate da una lettura irenica delle trasformazioni tecnologiche in corso. Da una parte, potremmo definire utopie neoconservatrici quella interpretazioni della tecnologia digitale come leva per la pacificazione dei conflitti in direzione di un mondo più giusto e democratico. Come scrive Timo Daum,

Marshal McLuhans’ global village, Vilém Flussers universe of technical images, Richard Florida’s post-capitalist creative society, as well as the information and knowledge society of Daniel Bells, they are all different names for the same idea: social antagonisms dissolve, become obsolete and are replaced by a more democratic, egalitarian society. Free-floating information and shared knowledge provide the basis for sustainable growth and overall prosperity[11].

Dall’altra ci sono le letture postcapitaliste[12] per le quali il capitale è ormai arrivato a un punto in cui l’innovazione tecnologica è incompatibile con gli attuali rapport di produzione. In altre parole, col venir meno del mercato, dei diritti di proprietà, della distinzione fra tempo di lavoro e tempo di vita per via delle innovazioni digitali il capitalismo ha esaurito la sua capacità di adattamento e, allo stesso tempo, ha posto le basi per il suo superamento.

 Alla conquista degli spazi 

Dietro la metafora della piattaforma si intersecano diverse stratificazioni genealogiche che questo business model articola in maniera innovativa e dirompente. In particolare, vorrei soffermarmi su due traiettorie storiche che si connotano per la loro natura spaziale alla base di queste nuove forme di valorizzazione: una logica “logistica” della produzione e la conquista degli spazi digitali. Si tratta evidentemente di due vettori definiti da una temporalità che va ben al di là del decennio postcrisi ma che proprio a partire da quest’ultimo hanno assunto nuove configurazioni.

Con la prima locuzione possiamo intendere il passaggio da un modello produttivo fordista centrato sulla concentrazione di mezzi e forze produttive all’interno di spazi ben definiti ad uno postfordista in cui conta la capacità di assemblaggio fra diversi centri geograficamente diffusi[13]. La costruzione di reti di produzione globali[14] ha prodotto una differenziazione e disseminazione spaziale tra diverse funzioni produttive così come una loro stretta interdipendenza. La miriade di declinazioni locali del capitale ha richiesto sempre di più lo sviluppo di una governance della mobilità, dei flussi, delle connessioni. Secondo Bruce Allen[15], a partire dagli anni sessanta la logistica ha smesso di limitarsi alla sola circolazione delle merci per diventare capacità di gestione della catena produttiva. Questo ha richiesto, tra le altre cose, lo sviluppo di una serie di strumenti tecnologici[16] (ad esempio, per la geolocalizzazione) e tecniche per la gestione e il controllo dei flussi basati su raccolta e analisi dei dati.

La seconda stratificazione genealogica su cui vorrei soffermarmi riguarda l’entusiasmo che si è sprigionato durante gli anni novanta per le potenzialità offerte da alcune innovazioni tecnologiche, in primis lo sviluppo del world wide web. Durante questo decennio – fino allo scoppio della bolla delle dot.com – la Silicon Valley è stata l’epicentro delle prime internet company, sviluppatesi in maniera rapida e dirompente. Questa utopia realizzata incorporava una cultura tecnolibertaria[17] molto radicata negli Stati uniti e basata sull’idea che il cyberspazio fosse la nuova frontiera da conquistare, separato dal mondo fisico e quindi non soggetto alle stesse leggi. Vale la pena citare due testi significativi di questa cultura. Il primo è la Declaration of the Independence of Cyberspace dell’Electronic Frontier Foundation, pubblicata nel 1996. L’autore, John Perry Barlow, scriveva: «Governments of the Industrial World, you weary giants of flesh and steel, I come from Cyberspace, the new home of Mind. On behalf of the future, I ask you of the past to leave us alone. You are not welcome among us. You have no sovereignty where we gather»[18]. Il secondo è The Califonian Ideology, scritto nel 1995 da Richard Barbrook e Andy Cameron, i quali enunciavano e, allo stesso tempo, sottoponevano a critica il sogno utopico nato dall’incontro tra le tecnologie della Silicon Valley con il venture capitalism. Si trattava di un mix di ricerca sfrenata del profitto da yuppies e libera creatività ed esaltazione del godimento da hippies: le nuove tecnologie, l’economia della conoscenza e la creazione di reti digitali avrebbero permesso a tutti di accedere a informazioni e ricchezza e avrebbero reso il lavoro superfluo. La crescita fino all’implosione (tra il 2000 e il 2001) di queste compagnie fu favorita, dal punto di vista economico, dalle politiche orientate al libero mercato del governo di Bill Clinton il quale varò provvedimenti fiscali favorevoli alle internet company tali da creare una digital free-trade zone[19]. Sebbene lo scoppio della bolla speculativa – che aveva gonfiato questo settore senza considerare l’effettiva remuneratività delle imprese – abbia temporaneamente rallentato lo sviluppo delle cosiddette nuove economie legate alle tecnologie digitali, ormai il passo decisivo verso un uso commerciale di internet era stato fatto ed era stata creata l’infrastruttura necessaria al suo decollo.

Il comunismo del capitale

 Ma cos’è una davvero una piattaforma? O meglio, riformulando la domanda, cosa effettivamente fa? Non si tratta di una semplice questione terminologica, ma di un punto che ha conseguenze profonde su alcuni aspetti importanti come, ad esempio, il riconoscimento o meno di alcune tipologie di rapporti di lavoro o la regolazione delle loro attività in termini di privacy o fiscalità. Uber, per esempio, nega di essere un servizio di taxi così come Deliveroo ritiene che i rider iscritti alla propria app non siano suoi dipendenti. Si tratta quindi si semplici infrastrutture tecniche? Sono aggregatore di domanda e offerta? Oppure fornitori di servizi di cui sono direttamente responsabili?

Secondo Geoffrey G. Parker,‎ Marshall W. Van Alstyne e‎ Sangeet Paul Choudary[20] le piattaforme esistono da anni in quanto aggregatori di domanda e offerta (ad esempio, un centro commerciale mette insieme clienti e commercianti). L’elemento di novità è rappresentato dalle tecnologie dell’informazione:

IT makes building and scaling up platforms vastly simpler and cheaper, allows nearly frictionless participation that strengthens network effects, and enhances the ability to capture, analyze, and exchange huge amounts of data that increase the platform’s value to all[21].

Sempre secondo Parker,‎ Van Alstyne e‎ Choudary è possibile individuare tre passaggi chiave che connotano la strategia di piattaforma rispetto ad altre forme di impresa: a) dal possesso alla gestione. La centralità strategica del capitale fisso viene sostituita dalla trasformazione di beni di consumo privati e del capitale umano in servizi commerciali; b) da un processo produttivo chiuso alle interazioni fra soggetti esterni. Le piattaforme – in particolare i modelli lean[22] – mirano ad esternalizzare competenze e capitali, delocalizzando alcuni compiti e funzioni e centralizzandone altri; c) dall’individuo all’ecosistema; utenti, produttori, clienti diventano ruoli mobili all’interno di una rete che cresce in base all’intensità delle interazioni. Le scelte dei singoli non sono più concepite come scelte individuali ma interdipendenti.

Sintetizzando, le piattaforme digitali permettono il passaggio dal capitale fisso alla condivisione di valori immateriali e beni di consumo, forniscono spazi digitali per libere interazioni che sono fonte di dati e producono effetti di rete, agiscono in maniera sistemica. In particolare, la community viene presentata come la forma soggettiva collettiva che dà vita alle piattaforme, l’asset strategico di questo modello d’impresa. Questa comunità è plasmata in maniera diversa rispetto, ad esempio, alle comunità operaie della fabbrica fordista; il potere disciplinare assume forme meno autoritarie e impositive privilegiando tecniche molto più persuasive, positive e interiorizzate dai partecipanti. Negli ecosistemi digitali, dunque, la produzione di soggettività si basa su processi di scambio, interazione e controllo che alla linea preferiscono la circolarità, l’iterazione, la retroattività[23]. Se il capitale umano è centrale per lo sviluppo delle piattaforme, e se la produzione di soggettività si dà all’interno di un flusso continuo di scambi e interazioni, la gestione di questi flussi – questa logica organizzativa già presente nella logistica – diventa di vitale importanza per le stesse piattaforme. Il capitale – inteso come comando sul lavoro e sui suoi prodotti – assume i tratti della governance. Significativamente, Parker e Van Alstyne affermano che «platforms define who participates, how they divide or share value, and, perhaps most importantly, how to resolve conflicts between participants. […] No matter what the model, we see the need for governance. Platforms must have a governance structure»[24].

L’opacità delle scatole nere

A questo punto, vale la pena chiedersi se la metafora della piattaforma sia effettivamente adeguata a rappresentare il funzionamento e il ruolo di queste nuovi modelli di impresa. In generale, le metafore mettono in evidenza alcuni aspetti di un oggetto tramite la comparazione con qualcos’altro, producono una rappresentazione di un fenomeno, ci consentono la comprensione di qualcosa tramite il diverso. Allo stesso tempo, la scelta del termine di paragone oscura altri aspetti, li rimuove. La rappresentazione, dunque, non è un atto neutrale, piuttosto seleziona e valorizza ciò che si vuol far vedere. Non è forse un caso che sono state le stesse internet company a descrivere se stesse nei termini di piattaforme. In alternativa, sono state proposte altre metafore per descrivere questi nuovi modelli di business[25]. Tra tutte, quella più in grado di mettere in evidenza il carattere di rimozione connesso alle piattaforme è quella della black box[26]. Per la teoria dei sistemi, le scatole nere sono sistemi la cui logica interna non è direttamente visibile a un osservatore esterno, ma possono essere descritte solo per le connessioni di input e output, azione e reazione. Le scatole nere sono anche dispositivi elettronici installati su aerei e navi e destinati alla registrazione dei dati di navigazione. Il punto, in ogni caso, non è tanto trovarne una migliore, quanto far emergere il rimosso, le linee di conflittualità che si vorrebbero neutralizzare, il carattere incrinato di ciò che appare come piatto. Cosa sfugge dunque alla metafora della piattaforma? Qui vorrei soffermarmi su tra aspetti diversi: uno infrastrutturale, l’altro economico e l’ultimo politico.

Per quanto riguarda l’aspetto infrastrutturale – mentre l’immagine della piattaforma presenta gli spazi digitali come piatti, orizzontali, senza frizioni, democratici – abbiamo visto come le imprese digitali non si limitino ad accogliere in sé una comunità generica, ma strutturino le informazioni, la comunicazione, le relazioni. Gli agenti e i dispositivi di questa intelaiatura sono perlopiù ai margini, poco evidenti, opachi. Quello digitale è tutt’altro che uno spazio liscio ma multistratificato. La governance delle piattaforme è fortemente centralizzata, i criteri di selezione, promozione e censura delle informazioni perlopiù sconosciuti, mentre l’utilizzo dei dati aggira spesso qualsiasi tutela della privacy. Gli stessi membri della comunità digitale non costituiscono un corpo collettivo omogeneo ma si relazionano tra di loro secondo rapporti di potere asimmetrici oltre che con prospettive differenti. Per esempio, in molte piattaforme di hosting e food delivery il “collaboratore” che fornisce i servizi è fortemente condizionato dai processi di rating e feedback affidati al cliente. Le imprese digitali sono a loro volta interconnesse, producendo così una stratificazione[27] fra piattaforme. Secondo van Dijck,

The online world is not a level playing field: some platforms are more equal than others. There is a difference between what we could call ‘infrastructural’ information services from others. Many infrastructural services – but not all – are owned and operated by the Big Five tech companies (Alphabet-Google, Facebook, Amazon, Apple and Microsoft). They form the heart of the online system upon which many other ‘layers’ of platforms can be build. Infrastructural services include search engines and browsers, data and cloud servers, email and instant messenger services, social networking services, advertising networks, app stores, payment systems, identification services, data analytics services, video services, streaming music stores, geospatial and navigation tools, and a growing number of other services[28].

Questo ovviamente accresce enormemente il potere economico e politico delle cosiddette Big Five al punto da diventare le infrastrutture su cui si costruisce la società stessa[29]: la distinzione tra online e offline sfuma sempre di più, si fa impercettibile, ibrida.

Da un punto di vista economico, le piattaforme – presentandosi come semplice spazi di aggregazione i cui contenuti non sono oggetti di controllo diretto – si sgravano spesso delle responsabilità che toccherebbero loro in quanto imprese di servizi in termini di leggi sulla privacy, diritti dei lavoratori, tassazione pubblica. Dietro la presunta orizzontalità della piattaforma, alla base dei servizi offerti in condivisione o aldilà della pervasività dell’algoritmo si celano spesso l’intensificazione e l’estensione del lavoro umano[30]. Quello che dimenticano le diverse narrazioni sulla fine del lavoro e sulla società postcapitalista è che la distinzione fra tempi di lavoro e tempi di vita così come l’introduzione del salario come costo della riproduzione della forza-lavoro sono storicamente radicate tanto nell’esigenza del capitale di trovare strumenti compensatori per l’imposizione del sistema di fabbrica, quanto nelle rivendicazioni operaie che hanno imposto un limite al potere di comando del capitale sul lavoro. Il salario, pertanto, può essere riletto in Marx e nella storia del movimento operaio come categoria politica prima ancora che come categoria economica. La sua erosione si è data non in base alla liberazione da un rapporto di sfruttamento, ma alla sua estensione ad attività prima considerate libere, improduttive. L’innovazione tecnologica, infatti, incorpora una stratificazione di conoscenze e tecniche, espropriando in tal modo il lavoratore delle sue competenze e del suo potere decisionale. La tecnologia tuttavia non agisce solo in maniera labour saving, ovvero rimpiazzando la forza-lavoro con le macchine, ma anche in funzione labour implementing, intensificando i ritmi di lavoro, sussumendo al comando del capitale altre attività precedentemente “poco strutturate”. Il potenziamento della cooperazione sociale all’interno delle piattaforme – tramite la costruzione di ecosistemi e comunità digitali – agisce come motore di sviluppo e fattore produttivo per abbattere costi, migliorare il processo produttivo, diminuire il tempo di rotazione, mettere a lavoro ulteriori forze produttive, utilizzare come materia prima dell’estrazione di dati gli scambi comunicativi, simbolici, affettivi. Il capitalismo estrattivo è penetrato fin dentro la cooperazione sociale e l’ha sussunta, riplasmandone modalità e finalità.

Infine, da un punto di vista politico va notato come le piattaforme – e, in particolare, le Big Five – stiano acquisendo sempre più peso nel dibattito politico. Sono, infatti, in grado di influenzare le attività legislative degli stati[31], di impedire il contrasto dei monopoli a favore di politiche orientate alla deregolamentazione e alla detassazione, gestiscono l’accesso e l’elaborazione di una montagna di dati privati su abitudini, orientamenti e attività delle persone. Secondo Evgeny Morozov,

Ci siamo fossilizzati sulla tesi della centralità di internet per spiegare la realtà (a seconda delle volte fosca o edificante) attorno a noi, e così continuiamo a cercare aneddoti che confermino la correttezza della nostra tesi; il che non fa che convincerci ancora di più che la nostra tesi preferita debba essere centrale in qualsiasi spiegazione dei nostri problemi attuali. Ma cosa significa in pratica pensare fuori da internet? Be’, significa andare oltre le favolette fabbricate dal complesso industrial-congressuale della Silicon Valley. Significa prestare attenzione ai “dettagli” economici e geopolitici relativi al funzionamento di molte società hi-tech. Scopriremmo così che Uber – grande promotore della mobilità e della lotta alle élite – è un’azienda che vale più di 60 miliardi di dollari, in parte finanziata da Goldman Sachs. Allo stesso modo, ci renderemmo conto che l’attuale infornata di trattati commerciali come il TiSA, il TTIP e il TPP, nonostante siano ormai falliti, mira a promuovere anche il libero flusso di dati – scialbo eufemismo del ventunesimo secolo per “libero flusso di capitali” –, e che i dati saranno sicuramente uno dei pilastri del nuovo regime commerciale globale[32].

L’irriducibilità del lavoro vivo

Come rompere l’opacità delle scatole nere e produrre un sapere del loro funzionamento e dei loro effetti? È possibile mettere in questione il potere delle piattaforme?

Abbiamo già visto che quelle che apparivano come superfici sono piuttosto piani inclinati, sezioni di stratificazioni di territori digitali dove si intrecciano dispositivi tecnologici, rapporti di potere e soggettività mobili. Le relazioni asimmetriche, i colli di bottiglia, i punti di rottura e le linee di tensione rimettono costantemente in discussione la metafora della piattaforma e tutto ciò che questa veicola in termini etici, economici e politici. Uno sguardo logistico che si focalizzi sulle dinamiche e non sulle statiche, sui flussi e non sulle identità, sulle resistenze che nascono nella cooperazione piuttosto che sulla neutralizzazione dei conflitti potrebbe essere un metodo – inteso nella sua accezione etimologica di “strada con la quale si va oltre” – efficace per attraversare le diverse stratificazioni degli spazi digitali. Questo vuol dire frammentare la presunta omogeneità della comunità digitale in una moltitudine di soggettività mobili che ricontrattano continuamente la loro posizione e condizione all’interno dell’ecosistema. Sebbene la piattaforma provi a produrre un corpo collettivo neutro, diversi corpi particolari possono entrare in conflitto con l’infrastruttura stessa e mettere fine, almeno temporaneamente, alla supposta neutralità delle stesse. Come afferma Gillespie,

The platform metaphor also obscures the fact that platforms are populated by many, diverse, sometimes overlapping, and sometimes contentious communities. […] the relationship between users and platform is not an abstract one of opportunity, but a contentious one about identity and purpose[33].

Dagli scioperi dei facchini di Amazon alle proteste dei riders di Deliveroo, il lavoro vivo erompe come fattore irriducibile alla logica degli algoritmi o ad una lettura pacificatrice dell’economia di piattaforma. Piuttosto, viene in primo piano il ruolo della cooperazione come campo di tensione fra istanze diverse: quella di sussunzione della forza-lavoro al capitale e quella di autonomia della lavoro vivo, irriducibile a un particolare disciplinamento. La posta in palio, come già visto, è la governance dei flussi di merci, dati, persone, laddove alla logistica del capitale fa da contraltare una contrologistica del lavoro vivo[34] che può essere interpretata come il tentativo di riappropriarsi dell’organizzazione, di generare forme autonome di cooperazione, di scardinare le scatole nere.

Su quale terreno esercitare un contropotere rispetto alle piattaforme? Quali pilastri su cui si basa il loro ruolo vanno erosi? Su questo punto, in chiusura, può essere utile identificare tre diverse opzioni.

Da una parte c’è chi, come Nick Srnicek, ritiene che alcune piattaforme siano ormai talmente pervasive da essere diventate delle infrastrutture fondamentali per la nostra società. Queste continuano a estrarre dati dalle attività degli utenti senza alcun tipo di controllo pubblico. Pertanto, privilegiando l’infrastruttura come elemento strategico, Srnicek propone la nazionalizzazione di quelle piattaforme e di quei servizi di cui ormai non possiamo fare a meno:

We have witnessed the rise of increasingly formidable platform monopolies. Data is quickly becoming the 21st-century version of oil – a resource essential to the entire global economy, and the focus of intense struggle to control it. […] in the past, natural monopolies like utilities and railways that enjoy huge economies of scale and serve the common good have been prime candidates for public ownership. The solution to our newfangled monopoly problem lies in this sort of age-old fix, updated for our digital age. It would mean taking back control over the internet and our digital infrastructure, instead of allowing them to be run in the pursuit of profit and power[35].

Altri, come Trebor Scholz, si concentrano maggiormente sul processo produttivo. Il punto dirimente, dunque, sarebbe quello di democratizzare il modello d’impresa delle piattaforme, sostituendo alla governance verticale una vera condivisione basata sulla forma cooperativa:

Il cooperativismo delle piattaforme può dare nuovo vigore alla condivisione genuina, non deve necessariamente respingere il mercato, ma piò servire come un rimedio per gli effetti corrosivi del capitalismo e non dovrebbe essere scambiato per una fantasia marxista. Ci può ricordare che il lavoro può essere un’esperienza umana dignitosa invece che sminuente. Le piattaforme cooperative non sono una panacea per tutti i mali del capitalismo, ma potrebbero contribuire a inserire alcuni fili etici nel tessuto del lavoro del ventunesimo secolo[36].

Infine c’è chi, come Antonio Negri, ritiene che il problema sia radicato nell’ossatura economico-politica del modo di produzione capitalistico, in quei dispositivi di potere che rendono possibili dei rapporti di sfruttamento, ovvero la statualità e la proprietà privata:

In queste piattaforme i lavoratori non pensano di usufruire di un più alto grado di democrazia! E lottano e resistono allo sfruttamento bestiale. È importante tuttavia che si ponga il problema: è possibile rovesciare il funzionamento dell’algoritmo di comando delle piattaforme digitali? Lungi dall’immaginare utopici rovesciamenti delle piattaforme digitali in circuiti cooperativi, sarà possibile dominare quei mostri solo smantellando le condizioni politiche nelle quali l’algoritmo è imposto: quelle del diritto privato e della sua legittimazione statale[37].

Va altresì notato come queste tre opzioni non si pongono tra di loro in un rapporto di mutua esclusività; piuttosto costituiscono delle diverse strategie che vanno calate all’interno di contesti e momenti specifici. Le lotte dei rider delle piattaforme di food delivery sono, in tal senso, esemplificative delle molteplici forme di contro-potere che i lavoratori digitali possono mettere in campo. Sebbene spesso derubricato come lavoretto o hobby, i sevizi di consegne pasti a domicilio sono una delle forme di gig economy più discusse degli ultimi anni. Questo non solo perché incarnano perfettamente l’ideologia della fine del lavoro veicolata dalle piattaforme, ma anche e soprattutto perché i rider di tante città europee hanno dato vita a numerose azioni di protesta in questi anni che hanno messo in discussione il potere di comando dell’algoritmo sul loro lavoro. Di fronte alle trasformazioni produttive veicolate dalle piattaforme – le quali stanno aprendo nuove frontiere di valorizzazione e sperimentando nuove forme di messa al lavoro – si sta dando un contromovimento del lavoro vivo che trova negli scioperi e nell’autorganizzazione dei rider la forza di costituirsi in un ciclo transnazionale di lotta[38] nella gig economy.

Le piattaforme di food delivery sostengono che i sevizi di consegna da loro offerti sono svolti da collaboratori esterni che spesso non vengono neanche descritti[39] come lavoratori, piuttosto come membri di una community. Pertanto, anche la retribuzione è concepita più come un elemento secondario e integrativo accanto ad altri fattori (la passione per la bicicletta, il carattere “social” dell’attività, i vantaggi offerti ai membri della community) che come l’elemento centrale nella definizione di un rapporto economico. Il lavoro è organizzato tramite un app scaricabile su uno smartphone[40] che in tal modo diventa lo strumento principale di organizzazione e controllo del processo produttivo. L’azienda può in qualsiasi momento recedere dal rapporto di lavoro negando l’accesso alla piattaforma al rider. Eppure in tutte le loro mobilitazioni i rider hanno contestato apertamente il potere della piattaforma a disporre liberamente del loro lavoro, rivendicando non soltanto una migliore retribuzione, ma anche un’organizzazione del lavoro più orizzontale e trasparente (per esempio, criticando i meccanismi di rating e assegnazione turni). Gli smartphone si sono rivelati non solamente strumenti di controllo, ma anche punti di connessione autonoma fra i lavoratori (non a caso le imprese sono molto attente a stabilire canali di comunicazione asimmetrica con e fra i rider). Il ricatto costante della disconnessione dalla piattaforma ha significato, altresì, l’impossibilità di identificarsi a pieno con essa. Le controstrategie messe in campo dai rider sono state diverse. Da una parte, è costante il tentativo di adeguare e reinventare lo sciopero negli spazi e nelle attività istituiti dalle piattaforme digitali: bloccare, rallentare, deviare, sabotare i flussi di consegna per resistere alla verticalità imposta dall’algoritmo (e da chi lo governa). Dall’altra, viene contestata pubblicamente la narrazione che le piattaforme fanno di loro stesse ricorrendo, in molti casi, anche all’intervento degli ispettorati del lavoro (in Spagna, in Francia, in Belgio) per dimostrare il rapporto di subordinazione che viene instaurato all’interno della community. Infine, laddove la resistenza diretta non è stata in grado di ribaltare il potere dell’algoritmo, è in corso il tentativo (come avviene a Bruxelles) di organizzare autonomamente il lavoro costituendo una piattaforma cooperativa la cui infrastruttura digitale sia posseduta interamente dai rider stessi.


[1] Cfr. Klaus Schwab, The Fourth Industrial Revolution, Penguin, 2017.

[2] I paradigmi dell’industria 4.0 e del capitalismo delle piattaforme non si distinguono solamente per una diversa formulazione del cambiamento produttivo. Incorporano anche un diverso retroterra geografico: il primo nasce in Germania, il secondo invece ha trovato particolare successo nella Silicon Valley americana.

[3] Cfr. Carlo Gubitosa, Hacker, scienziati e pionieri, Stampa Alternativa, 2007.

[4] Nick Srnicek, Capitalismo digitale, Luiss University Press, 2017, p. 42 (I ed. Cambridge, 2016).

[5] Ivi, p. 45.

[6] Cfr. Tarleton Gillespie, The Platform Metaphor, Revisited, 2017, https://www.hiig.de/en/blog/the-platform-metaphor-revisited/ (ultima consultazione: 10 gennaio 2018).

[7] Cfr. Nicholas John, Sharing – from ploughshares to file sharing and beyond, 2017, https://www.hiig.de/en/blog/sharing-from-ploughshares-to-file-sharing-and-beyond/ (ultima consultazione: 10 gennaio 2018).

[8] Cfr. Anne Helmond, The Platformization of the Web. Making Web Data Platform Ready, «Social Media + Society», n. 2, 2015, pp. 1-11.

[9] Cfr. José van Dijck, Thomas Poell, Martijn de Waal, M. de, De platformsamenleving. Strijd om publieke waarden in een online wereld, Amsterdam University Press, 2016.

[10] Per esempio, scrive Nicholas John a proposito dello slogan «condividere è prendersi cura»: «Sharing refers simultaneously to a form of distribution, or more specifically, to a form of just and equanimous distribution – we don’t just want a share, we want our fair share – and to a form of communication, or more specifically to talk with an emotional orientation. These connotations are neatly captured in the phrase, sharing is caring. The concept of sharing is thus pro-social and holds out the promise of a better future, in which people are brought together through the mutual understanding gained by open and honest communication, and in which resources are distributed more justly than is the case today. For some, this is precisely the promise of the sharing economy; for others, the term is an ideological distortion of what are actually exploitative social relations». Cfr. N. John, Sharing – from ploughshares to file sharing and beyond, cit.

[11] Timo Daum, Capitalism as a service – Capitalism is going digital, 2017, http://marx200.org/en/debate/capitalism-service-capital-going-digital (ultima consultazione: 10 gennaio 2018).

[12] Cfr. Paul Mason, PostCapitalism. A Guide to our Future, Allen Lane, 2015.

[13] Cfr. Deborah Cowen, The deadly life of logistics, University of Minnesota Press, 2014. Cowen afferma che è necessario riconoscere «transportation as an element of production rather than merely a service that follows production» (p. 2) o «distribution as an element of integrated system of production and circulation, rather than a discrete and bounded activity» (p. 48).

[14] Cfr. Jeffrey Henderson et al., Global production networks and the analysis of economic development, «Review of International Political Economy», n. 3, 2002, pp. 436–464.

[15] Cfr. Bruce Allen, The Logistics Revolution and Transportation, «Annals of the American Academy of Political and Social Science», n. 1, 1997, pp. 106-116.

[16] Cfr. Luis Felipe Alvarez León, The Digital Economy and Variegated Capitalism, «Canadian Journal of Communication», n. 4, 2015, pp. 637–654.

[17] Cfr. Andrea Fumagalli, Greatful Dead economy. La psychedelia finanziaria, Agenzia X, 2016.

[18] John Perry Barlow, A Declaration of the Independence of Cyberspace, 1996, https://www.eff.org/it/cyberspace-independence (ultima consultazione: 10 gennaio 2018).

[19] Cfr. Olivia Solon, Sabrina Siddiqui, Forget Wall Street – Silicon Valley is the new political power in Washington, «The Guardian», 3 settembre 2017, consultabile all’indirizzo: https://www.theguardian.com/technology/2017/sep/03/silicon-valley-politics-lobbying-washington (ultima consultazione: 10 gennaio 2018).

[20] Cfr. Geoffrey G. Parker et al., Platform Revolution: How Networked Markets Are Transforming the Economy – and How to Make Them Work for You, W. W. Norton & Company, 2016.

[21] Christian Sarkar, “The Platform Revolution” – An Interview with Geoffrey Parker and Marshall Van Alstyne, 2016, http://www.marketingjournal.org/the-platform-revolution-an-interview-with-geoffrey-parker-and-marshall-van-alstyne/ (ultima consultazione: 10 gennaio 2018)

[22] Cfr. N. Srnicek, Capitalismo digitale, cit.

[23] Sono questi alcuni degli elementi che distinguono il capitalismo delle piattaforme dalla rivoluzione logistica degli anni sessanta. Cfr. G. Parker, M. Van Alstyne, S. P. Choudary, Pipelines, Platforms, and the New Rules of Strategy, «Harvard Business Review», n. 3, 2016, pp. 54–60.

[24] Cfr. C. Sarkar, The Platform Revolution – An Interview with Geoffrey Parker and Marshall Van Alstyne, cit.

[25] Cfr. José van Dijck, The platform as pizza. Towards a taxonomy of platforms, 2017, https://www.hiig.de/en/blog/the-platform-as-pizza-towards-a-taxonomy-of-platforms/ (ultima consultazione: 10 gennaio 2018); T. Gillespie, The Platform Metaphor, Revisited, cit.

[26] Cfr. Frank Pasquale, The Black Box Society. The Secret Algorithms That Control Money and Information, Harvard University Press, 2015; Trebor Scholz, Think Outside the Boss. L’incapacità di immaginare una vita diversa è il trionfo definitivo del capitale, in Emiliana Armano, Annalisa Murgia, Maurizio Teli, Platform capitalism e confini del lavoro negli spazi digitali, Mimesis, 2017, pp. 39-58.

[27] José van Dijck distingue tra piattaforme infrastrutturali e settoriali. Cfr. J. Van Dijck, The platform as pizza: towards a taxonomy of platforms, cit.; Jonas Andersson Schwarz distinguee invece fra «superstructures» che fungono da «gatekeepers» e «app». Cfr. Jonas Andersson Schwarz, Platform logic. The need for an interdisciplinary approach to the platform-based economy, 2016, www.osf.io/preprints/socarxiv/x3twb (ultima consultazione: 10 gennaio 2018); Jean-Christophe Plantin, Carl Lagoze, Paul Edwards e Christian Sandvig invece sostengono che pochi «builders» fungano da infrastrutture essenziali mentre tutti gli altri servizi si stanno piattaformizzando. Cfr, Jean-Christophe Plantin, Carl Lagoze, Paul Edwards, Christian Sandvig Infrastructure studies meet platform studies in the age of Google and Facebook, «Social Media + Society», n. 1, 2016, pp. 293-310.

[28] J. van Dijck, The platform as pizza: towards a taxonomy of platforms, cit.

[29] Cfr. N. Srnicek, Capitalismo digitale, cit.

[30] Cfr. Ursula Huws, Expression and expropriation. The dialectics of autonomy and control in creative labour, «Ephemera, theory and politics in organization», n. 3-4, 2010, pp. 504-521.

[31] Secondo Solon e Siddiqui, «over the last 10 years, America’s five largest tech firms have flooded Washington with lobbying money to the point where they now outspend Wall Street two to one. Google, Facebook, Microsoft, Apple and Amazon spent $49m on Washington lobbying last year, and there is a well-oiled revolving door of Silicon Valley executives to and from senior government positions. […] Beyond the direct lobbying spend, which is publicly reported, Silicon Valley exerts influence on policymakers and citizens through opaque “soft power” techniques. These include funding thinktanks, research bodies and trade associations who lobby the government or influence civil society». Cfr. O. Solon, S. Siddiqui, Forget Wall Street – Silicon Valley is the new political power in Washington, cit.

[32] Evgeny Morozov, Silicon Valley. I signori del silicio, Codice, 2016, pp.?

[33] T. Gillespie, The Platform Metaphor, Revisited, cit.

[34] Jasper Bernes, Logistics, Counterlogistics and the Communist Prospect, «Endonotes», n. 3, 2013, pp.?

[35] N. Srnicek, We need to nationalise Google, Facebook and Amazon. Here’s why, 2017, https://www.theguardian.com/commentisfree/2017/aug/30/nationalise-google-facebook-amazon-data-monopoly-platform-public-interest (ultima consultazione: 10 gennaio 2018).

[36] T. Scholz, Think Outside the Boss, cit. p. 56.

[37] Roberto Ciccarelli, Toni Negri: «Il nuovo Palazzo d’inverno sono le banche centrali», «il manifesto», 4 novembre 2017. Consultabile all’indirizzo: https://ilmanifesto.it/toni-negri-il-nuovo-palazzo-dinverno-sono-le-banche-centrali (ultima consultazione: 10 gennaio 2018).

[38] Callum Cant, The wave of worker resistance in European food platforms 2016-17, «Notes from Below», n. 1, 2018, http://www.notesfrombelow.org/article/european-food-platform-strike-wave (ultima consultazione: 10 gennaio 2018).

[39] Cfr. Sarah Butler, Deliveroo accused of ‘creating vocabulary’ to avoid calling couriers employees, «The Guardian», 5 aprile 2017. Consultabile all’indirizzo: https://www.theguardian.com/business/2017/apr/05/deliveroo-couriers-employees-managers (ultima consultaizne: 10 gennaio 2018).

[40] Cfr. Facility Waters, Jamie Woodcock, Far From Seamless: a Workers’ Inquiry at Deliveroo, «Viewpoint Magazine», 20 settembre 2017, https://www.viewpointmag.com/2017/09/20/far-seamless-workers-inquiry-deliveroo/ (ultima consultazione: 10 gennaio 2018).


L’articolo è stato precedentemente pubblicato su Zapruder 46 “Block The Box. Logistica, Flussi, Conflitti” ed è ora anche scaricabile gratuitamente dal sito della rivista.

Maurilio Pirone

PhD in Politics, Institutions, History
Project Manager for Urban Regeneration

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