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Keep on Moving. L’evoluzione delle piattaforme di food delivery e le sfide del sindacalismo metropolitano dei rider

Lo sviluppo, la regolamentazione e i conflitti sorti attorno alle cosiddette piattaforme costituiscono indubbiamente uno dei punti di vista privilegiati su una serie di trasformazioni in corso nel mondo del lavoro e – più in generale – sulle piste battute dal capitalismo contemporaneo. Tra le diverse tipologie di piattaforme, quelle che offrono servizi di food delivery rappresentano uno dei casi più interessanti per dinamicità del fenomeno e portata dei conflitti.

Il food delivery, infatti, si conferma un settore in espansione. La crescita delle piattaforme sembra legata – oltre che all’aumento dei consumi tramite questi servizi – all’adozione di modelli gestionali volti alla frammentazione della forza-lavoro per tenere bassi i salari.

Allo stesso tempo, non sembrano arrestarsi i punti di frizione fra le piattaforme e i lavoratori.

Le battaglie legali – soprattutto su scala europea – vanno di pari passo con una proliferazione legislativa sul piano nazionale che però al momento non sembra in grado di incidere significativamente sullo statuts quo.

Gli esperimenti di cooperative auto-gestite dei riders costituiscono un orizzonte di potenziale liberazione dal potere dell’algoritmo anche se la loro sostenibilità economia sembra minacciata dallo strapotere finanziario dei grandi player internazionali.

Infine, le forme di sindacalismo metropolitano sorte attorno alle piattaforme di food delivery hanno ormai raggiunto un radicamento planetario che ne dimostra l’aspetto non occasionale ma endemico. Tuttavia è necessario sviluppare una riflessione pratica sulle forme di organizzazione e lotta in grado di opporsi efficaciemente al potere economico e logistico delle piattaforme.

L’era delle piattaforme

Che le cosidette piattaforme non siano un fenomeno superficiale e passeggero è ormai chiaro. La platform revolution sembra essersi evoluta nell’era delle piattaforme considerata l’estensione oramai globale di questo business model e la piattaformizzazione di una serie innumerevole di servizi (tanto da rendere difficoltosa una definizione precisa di piattaforma).

Il food delivery costituisce uno dei settori di punta dell’espansione delle piattaforme, anche e soprattutto grazie al forte sostegno finanziario ricevuto. Ad esempio, Amazon è recentemente entrata a gamba tesa nella capitalizzazione di Deliveroo investendo 575 milioni di dollari sulla start-up britannica, tanto da allertare la Competition and Market Autority che ha sospeso l’investimento. Le prospettive di crescita del settore unite a un immaginario fatto di consegne ovunque e in qualsiasi modo – quello che potremmo chiamare il sogno logistico di un mondo definito esclusivamente da flussi di merci e consumi costanti – contribuiscono ad attrarre ingenti investimenti finanziari senza i quali il settore rischierebbe la paralisi (molte aziende agiscono in perdita, almeno inizialmente).

La crescita costante delle piattaforme nel nostro paese è sicuramente legata all’aumento dell’ecommerce. Secondo l’ultimo report dell’Osservatorio eCommerce B2c, il food delivery vale 566 milioni di euro, con una crescita del +56% rispetto al 2018. Sempre secondo il report promosso dal Politecnico di Milano e il consorzio Netcomm, il 47% della popolazione italiana può avere accesso a servizi di consegna pasti a domicilio, con una copertura del 93% rispetto alle città con più di 50mila abitanti. In altre parole, rispetto ad una fase precedente di penetrazione nel mercato italiano, oggi le piattaforme – soprattutto i grandi player internazionali – si stanno assestando nelle grandi città ed espandendo in quelle medio-piccole unendo la funzione di deliverying a quella del semplice marketplace.

Questo assestamento generale delle piattaforme di food delivery va ben al di là dell’espansione locale dei servizi, ma assume i contorni di una spartizione globale del mercato. In una logica ben riassumibile nei due principi del growth before profits e the winner takes all,  sono in fase di definizione delle vere e proprie zone di influenza delle piattaforme, ogununa delle quali abbandona i mercati con poche possibilità di leadership e puntella quelli un cui ricopre una posizione dominante. È in questa ottica che possono essere letti alcuni movimenti come l’abbandono del mercato italiano da parte di Foodora, le voci su un presunto interessamento di UberEats e Deliveroo per Glovo (molto forte in Sudamerica), la decisione di Deliveroo di lasciare il mercato tedesco in soli pochi giorni, l’offerta di 5 miliardi di sterline che Takeaway ha fatto per acquisire JustEat.

Chi fa funzionare le piattaforme?

La crescita del settore però non è un fenomeno neutro e non può essere letta solo nei termini di un aumento dei consumi. I servizi di food delivery non sono fatti solo da clienti che acquistano ma anche da rider che pedalano e consegnano i pasti. Rispetto al ventaglio alquanto ampio di piattaforme, è possibile identificare due modelli principali di gestione della manodopera, il primo basato sulla frammentazione della prestazione lavorativa e il secondo sull’outsourcing della forza-lavoro.

Da una parte, infatti, abbiamo aziende come Glovo e Deliveroo che spingono per una massimizzazione della parcellizzazione del lavoro incarnata dal cottimo. In altre parole, il pagamento a ore ha lasciato spazio a un indice composito basato essenzialmente sul numero di consegne effettuate. Fattore che si affianca all’estrema competitività interna alla piattaforma – ovvero fra rider – per ottenere un numero di ore di lavoro adeguato. Non a caso proprio queste due piattaforme costituiscono la spina d’orsale della prima associazione italiana di categoria del settore, Assodelivery. In questo caso la concorrenza ha ceduto spazio al cartello, nato in una fase di forti contrasti con i sindacati metropolitani e come contro-mossa rispetto al tavolo di contrattazione nazionale che si era aperto nell’estate del 2018.

Dall’altra parte, invece, si collocano Just Eat e UberEats che invece affidano ad aziende terze la gestione della manodopera, ricalcando quanto già visto nel cosiddetto sistema delle cooperative della logistica ovvero la creazione di una filiera produttiva lunga e verticale che disperde responsabilità e punti di conflitto.

A prescindere dalla specifica strategia – cottimo o subappalto – in tutti e due i casi è possibile riscontrare il livellamento al ribasso delle condizioni di lavoro e un tentativo costante di inibire le forme di auto-organizzazione dei riders rendendo il lavoro sempre più competitivo, frammentato, individualizzato. Rispetto a ciò, è significativa – e va approfondita meglio – la probabile crescita della componente migrante in alcune piattaforme (su tutte, Glovo e UberEats). Di sicuro, il fattore che meglio mette in evidenza la precarietà dei riders è il drammatico aumento – sia a livello globale che italiano – dei morti sul lavoro (fenomeno che potrebbe essere spiegato, almeno in parte, con l’intensificazione della concorrenza e il passaggio al cottimo). Proprio il rischio di infortuni sul lavoro è stato – dal punto di vista dei rider – uno dei problemi principali dell’ultimo anno, che non è stato risolto dall’introduzione di forme assicurative private ma rispetto al quale andrebbero ripensati tanto lo sviluppo urbano quanto il processo lavorativo.

Più in generale, è evidente che le piattaforme di food delivery siano riuscite nell’intento di costruire quello che possiamo definire un platform-based market trainato da grandi player internazionali, ovvero un mercato sia di servizi che di forza-lavoro regolato interamente dalla concorrenza fra aziende e da una filosofia no-unions alla ricerca costante della frammentazione della forza-lavoro tramite la frammentazione del processo lavorativo.

Tuttavia, le piattaforme di food delivery costitusicono un punto di osservazione interessante anche per le forme di conflitto che si sono generate, nonostante le evidenti condizioni di debolezza contrattuale dei lavoratori. Rispetto all’evoluzione delle piattaforme, che direzione hanno preso le forme di resistenza?

Quali diritti per i riders?

Fin da subito il diritto è diventato uno dei principali campi di tensione del capitalismo di piattaforma; la cosa non deve soprenderci se collochiamo quest’ultimo all’incrocio fra una destrutturazione di lungo corso delle forme del lavoro e l’avvento di nuovi modelli di business basati sull’impiego intensivo di tecnologie digitali.

Detto altrimenti, le trasformazione produttive degli ultimi decenni sono andate di pari passo con l’adozione sempre più massiccia di forme di lavoro non-standard (come le partite iva o le collaborazione coordinate e continuative), inasprendo il problema del loro riconoscimento giuridico. Le tecnologie digitali hanno poi permesso l’adozione di modelli di organizzazione diffusa del lavoro su larga scala insieme a forme contrattuali non subordinate.

Questa tensione tra vecchie categorie giuslavoristiche e nuovi paradigmi produttivi esplode nel caso del food delivery: i rider sono micro-imprese o lavoratori dipendenti? L’inquadramento contrattuale dei lavoratori di piattaforma è un nodo centrale non solo dal punto di vista produttivo ma anche ri-produttivo dato che da quello dipendono, ad esempio, tanto i diritti sindacali quanto le forme di welfare. È per questo che la risposta alla domanda di prima è una questione essenzialemente politica, ovvero registra uno scontro fra forze contrastanti – il capitalismo di piattaforma e le nuove soggettività del lavoro vivo.

Il processo di Torino – che ha avuto inizlamente esito favorevole a Foodora e successivamente ai rider – aveva mostrato chiaramente questa tensione interna al diritto stesso, emersa a più riprese anche in tutta Europa dove si susseguono cause con esiti alterni (la Spagna sembra essere il paese dove maggiormente ci siano margini di vittoria legale per i rider, motivo per il quale in questo caso sono state le piattaforme ad aver chiesto di intervenire a livello legislativo).

Non si tratta, dunque, solo di inquadrare i rider – così come gli altri lavoratori di piattaforma – all’interno di un campionario già stabilito di figure del lavoro, ma di innovare questo campionario così come la comprensione delle forme in cui si dà il processo di valorizzazione di un capitale organizzato sempre più in maniera logistica e digitale.

Rispetto a questo scenario, nell’ultimo anno abbiamo assistito a una proliferazione normativa a diversi livelli.

Il primo e forse più noto provvedimento legislativo è stato la Carta di Bologna, firmato poco più di un anno fa. Si tratta di un accordo territoriale tripartitico (comune, sindacati, imprese) valido solo per i firmatari dello stesso. La carta non dirime la questione dell’inquadramento contrattuale dei rider, ma impone una serie di condizioni minime per garantire un lavoro dignitoso a prescindere dalla specifica tipologia contrattuale (ad. es. aggancia il salario orario minimo al CCNL della logistica). Senza entrare troppo nel merito della stessa va riconosciuta una cosa: la Carta ha permesso un miglioramento effettivo delle condizioni di lavoro per i rider delle piattaforme firmatarie e un pieno riconoscimento dell’attività sindacale di Riders Union Bologna (assemblee ufficiali, incontri formali con l’azienda, tavoli di monitoraggio e contrattazione). Di più, la Carta ha avuto una efficacia maggiore rispetto al suo carattere territoriale, come dimostra il recente accordo firmato da RUB con Sgnam/MyMenù per l’aumento della paga oraria a Bologna e in altre 4 città. Il vero punto debole della Carta sembra essere però proprio la sua natura di accordo territoriale che di fatto ha visto la partecipazione dei soli player locali e il gran rifiuto di quelli internazionali.

Un gradino più in alto troviamo le leggi regionali approvate in Lazio, Piemonte ed Emilia Romagna. Le Regioni hanno certamente più poteri e competenze delle amministrazioni comunali ma nel primo caso nulla viene detto di preciso rispetto ad alcune questioni centrali (ad es. la paga orario), mentre nel secondo e nel terzo si tratta di proposte di legge che dovranno passare per l’approvazione del Parlamento. In tutti e tre i casi, inoltre, il legislatore ha proceduto in maniera autonoma, senza coinvolgere nel processo legislativo i sindacati metropolitani dei rider.

Infine abbiamo il tavolo nazionale ottenuto l’anno scorso proprio da alcune sigle auto-organizzate. La parabola delle promesse fatte dall’ormai ex-Ministro del Lavoro Luigi Di Maio rispetto ai millantati diritti della generazione precaria è stata tanto discendente quanto inesorabile: la proposta iniziale di una riscrittura generale e radicale del concetto della subordinazione ha lasciato ben presto spazio a bozze di decreti specifici per i rider sempre più scarne. Contemporaneamente si è data una erosione di quello spazio di confronto fra soggetti auto-organizzati, legislatore, piattaforme e sindacati tradizionali per diversi motivi (la difficoltà avuta dai rider nel mettere in campo una rete organizzativa nazionale in grado di esercitare un conflitto esteso e coordinato, la totale incompetenza del legislatore nel gestire quello spazio e nel sapere effettivamentre intervenire a livello normativo, la strategia attendista delle piattaforme). Alla fine, il decreto emanato dal governo non fa che registrare di fatto lo status quo inserendo alcuni piccoli miglioramenti: se da una parte si vieta il cottimo assoluto e si rende obbligatoria la copertura INAL, dall’altra non viene stabilito alcun criterio generale per la definizione della retribuzione oraria, non si interviene sull’aspetto contributivo nè sui meccanismi di rating aziendale nè sulla gestione dei dati, si lasciano le piattaforme libere di far dipendere la paga fondamentalmente dal numero di consegne e non si definisce un monte ore garantito per ciascun rider che impedisca meccanismi di competizione interna. Tuttavia, il cambio di governo avvenuto nelle ultime settimane apre inaspettatamente spazi per un miglioramento dei provvedimenti contenuti nel decreto. La sua pubblicazione in Gazzetta Ufficiale risale solo al 4 settembre, data a partire dalla quale il Parlamento ha 60 giorni per la conversione in legge del decreto che può essere soggetto a modifiche, anche rilevanti. Il tempo è poco ma non insufficiente per riaprire un tavolo di discussione tra governo e sindacati metropolitani dei rider.

Riassumendo, la profiliferazione normativa del contesto italiano sembra contraddistinguersi per la limitata efficacia dei provvedimenti. O, se vogliamo vedere la cosa da un punto di vista differente, il diritto si rivela incapace di alterare autonomamente un rapporto di forza e bilanciare lo strapotere delle piattaforme.

Socialismo digitale

Il conflitto capitale/lavoro vivo all’interno delle piattaforme di food delivery non si gioca solo sul campo del diritto. Anche se in Italia non si è data ancora nessuna sperimentazione di questo tipo, è interessante soffermarsi brevemente su alcuni tentativi che si sono sviluppati principalmente in Francia, Spagna e Belgio di contrastare il potere dell’algoritmo tramite la costruzione di un modello economico alternativo di piattaforma. In questo caso è la forma stessa di impresa che diventa terreno di contesa fra le cosiddette piattaforme estrattive – che prima di tutto si appropriano del carattere sociale della produzione – e le piattaforme cooperative – che invece si prefiggono di riportare nelle mani del lavoro vivo il potere decisionale sulla produzione. Questo campo di tensione coglie un punto fondamentale: il potere del capitalismo delle piattaforme sta (principalmente) nelle infrastrutture digitali. Governance e controllo dei flussi stabiliscono le regole del gioco ovvero l’accesso/esclusione dalle piattaforme, le modalità della valorizzazione individuale sulle stesse (che, con un linguaggio diverso, potremmo chiamare l’investimento del capitale umano), la logistica di un processo produttivo diffuso che si è sovrapposto alla città fino ad inglobarla. Di più, in termini marxiani l’infrastruttura digitale delle piattaforme permette di potenziare il processo di cooperazione sociale del lavoro – quel processo per cui l’interazione fra individui all’interno del ciclo produttivo viene a costituire una forza-lavoro collettiva che è maggiore della somma delle singole forze-lavoro individuali – e, allo stesso tempo, di esporpiare i lavoratori del controllo e dei risultati di questo processo (che finisce per essere percepito come esterno e alienante). La costruzione di modelli di impresa differenti è dunque una sfida che punta alla ricomposizione di quell’operaio sociale, ovvero a combinare potenza e potere del lavoro vivo sulla produzione e sulle forze messe in campo. Se l’azione di espropriazione di queste forze è operata dal capitale tramite l’algoritmo e le piattaforme digitali – dato che l’accesso a questi spazi si basa sulla inclusione in un processo produttivo sociale e diffuso e sulla cessione immediata del potere decisionale sullo stesso – allora sono questi elementi che vanno scardinati per far saltare un rapporto di potere marcatamente logistico.

Le esperienze spagnole de La Pájara (Madrid) e di Mensakas (Barcellona) sono molto interessanti anche da un punto di vista genealogico: nate inizialmente come collettivi di lavoratori che hanno scioperato e/o fatto causa alle aziende (Ridersxderechos), hanno poi scelto il terreno dell’impresa sociale come strategia di sindacalismo metropolitano.

Quale sia la reale efficacia del sogno di un socialismo digitale inteso come riappropriazione del controllo sulla produzione tramite il possesso collettivo dell’impresa è tutto da vedersi. Senza dubbio, questo ritorno in auge del modello cooperativo dovrà fare i conti con alcuni problemi strutturali che vanno al di là della forma d’impresa e che costituiscono le condizioni socio-politiche del capitalismo storico del nostro presente: ad es. è impensabile che il mercato – con le sue regole e la competizione che veicola – non eserciti un potere esterno alla singola impresa per la quale diventa difficile stare dentro e fuori allo stesso tempo, modificarne le regole dall’interno, schivare i meccanismi di competizione con i grandi player. Allo stesso modo, le piattaforme digitali non si pongono tutte sullo stesso livello; c’è una stratificazione delle piattaforme, alcune delle quali fungono da infrastrutture per lo sviluppo delle altre (si pensi, ad esempio, a Google Maps). Emanciparsi dal potere del capitale sul lavoro quale livello di indipendenza tecnologica richiede?

Tutte questioni aperte che qualsiasi tentativo di impresa sociale dovrà affrontare per dimostrare la propria capacità di porsi come alternativa radicale ai modelli di piattaforme estrattive.

Costruire una contro-logistica delle lotte

Un terzo campo di conflitto – dopo quelli del diritto e del modello d’impresa – fra capitale e lavoro all’interno del capitalismo delle piattaforme resta quello legato alla soggettivazione del lavoro vivo. Se le piattaforme sono ormai un fenomeno planetario, non c’è paese al mondo dove non sia sorto un sindacato metropolitano su spinta degli stessi riders: da Toronto a Buenos Aires, da Kiev a Londra, è possibile sovrapporre alla mappa delle piattaforme una contro-mappa delle esperienze di auto-organizzazione dei lavoratori digitali. Ulteriore conferma della portata delle trasformazioni in corso rispetto alle quali ancora non si è data nè una sussunzione totale – ovvero priva di punti di attrito – della forza-lavoro all’interno del processo produttivo nè una efficace compensazione da parte del capitale – in termini di salario o welfare – per l’espropriazione del lavoro vivo. Di più, il sogno logistico di una libera, efficente ed ininterrotta circolazione delle merci unito all’utopia tipica della ideologia californiana di un mondo iper-tecnologico dove spariscono le divisioni di classe si scontra in maniera significativa con la realtà di un modello produttivo ad alta precarietà e, soprattutto, con le forme di auto-organizzazione di una forza-lavoro poco incline a piegarsi alle promesse del capitale.

Sono ormai più di 2 anni che in Italia queste forme di auto-organizzazione continuano a produrre scioperi, manifestazioni, assemblee. Dato non scontato se si considera il carattere fluido e nomadico di questo lavoro – e quindi la difficoltà intrinseca a qualsiasi forma di organizzazione metropolitana dei rider. La tenuta collettiva di questo movimento è ancor di più rilevante se pensiamo alla difficoltà generale incontrata da quasi tutti i sindacati metropolitani nel riuscire a strappare risultati concreti e al tentativo di recuperare terreno nei confronti di questo settore del precariato da parte dei sindacati confederali (che in Toscana sono riusciti a siglare un accordo-pilota con una azienda di food delivery locale). Il sindacalismo metropolitano dei rider, infatti, non è solo una sfida allo strapotere delle piattaforme ma anche alle forme tradizionali di sindacato che in molti casi hanno perso qualsiasi capacità di azione conflittuale così come di organizzazione della forza-lavoro.

Anche nell’ultimo periodo ci sono stati momenti di scontro con le piattaforme intensi ed interessanti, uno su tutti l’ondata di scioperi contro Glovo tra maggio e luglio in seguito alla decisione dell’azienda di togliere definitivamente qualsiasi forma di compenso orario minimo garantito. In questo caso va evidenziato il carattere fortemente migrante dei lavoratori in lotta (che registra anche quel parziale cambio nella composizione della forza-lavoro di cui si parlava prima).

La risposta da parte delle piattaforme per tentare di contenere le possibilità di azione e organizzazione dei rider non si è fatta attendere. La costante innovazione delle app e delle modalità di pagamento può essere letta (in parte) come una forma di contro-adattamento delle piattaforme alla capacità conflittuale del lavoro vivo. La deterritorializzazione dell’impresa, ad esempio, è arrivata al punto che Deliveroo e Glovo hanno deciso di chiudere gli sportelli locali di assistenza ai rider, in alcuni casi in seguito a dei blitz di protesta dei lavoratori. I centri di comando del capitale sul lavoro si fanno sempre più impersonali, digitalizzati, inafferrabili così da rendere anche difficile l’identificazione di un altro rispetto al singolo lavoratore o di spazi fisici di azione diretta.

Se, dunque, l’esistenza di un movimento insieme metropolitano e globale dei rider è cosa acclarata, la questione diventa come estenderlo, consolidarlo, rafforzarlo. Ovvero come trasformare la potenza in potere. A riguardo, due sono le questioni principali: a) come dare continuità a queste esperienze di auto-organizzazione al di là dei singoli momenti di conflittualità ovvero costruire delle istituzioni del lavoro vivo; b) come invertire lo strapotere delle piattaforme ovvero strappare un miglioramento concreto delle condizioni di vita e lavoro dei rider.

Rispetto al primo punto, è più che evidente come alcune delle esperienze di sindacalismo metropolitano dei rider abbiano avuto vita breve. Altre, invece, registrano un andamento “a fisarmonica” con momenti (brevi) di espansione e periodi (più o meno) lunghi di contrazione dell’attività sindacale. Questo non vuol dire che tra uno sciopero e un altro venga totalmente meno il processo organizzativo, molto spesso si fa meno intenso o visibile, ad esempio proseguendo nello sviluppo di cause legali contro le aziende. Va anche notato come in alcuni casi le esperienze auto-gestite si siano appoggiate a sindacati di base in grado di garantire quel fare organizzazione che molto spesso il carattere nomadico del lavoro di piattaforma rende difficoltoso; in altri casi, lo sviluppo di cooperative dei rider può essere letto come un modo alternativo di proseguire quel percorso di lotta e organizzazione con altri mezzi.

Il problema della tenuta del sindacalismo metropolitano – punto di tensione fra il fare organizzazione e l’estrema fluidità del lavoro di piattaforma – non può essere affrontato però senza tenere in conto anche il secondo problema cui si faceva riferimento, quello della sedimentazione dei percorsi di lotta. In generale, sono pochissimi gli accordi strappati dai rider nei confronti delle piattaforme. In Italia, dopo la carta di Bologna sottoscritta da alcuni player locali, sembra evidente che serva estendere lo spazio di contrattazione alle grandi piattaforme del settore che determinano le regole del mercato anche per le piccole. È in questa ottica che va fatto un tentativo rispetto alla conversione in legge del decreto Di Maio. Detto altrimenti, serve dimostrare che le piattaforme non sono un Moloch invincibile al quale sacrificare il lavoro vivo e che quest’ultimo resta un soggetto altro e irriducibile alle regole del capitale.

Queste due questioni aperte sono, a loro volta, legate alla capacità di mobilitazione e conflittualità che i rider saranno in grado di mettere in campo. Finora non sono di certo mancati scioperi, presidi, blocchi. Il punto sembra essere l’efficacia, ovvero la capacità di forzare la controparte ad aprire spazi di contrattazione laddove invece le piattaforme hanno sempre preferito una strategia del logoramento delle proteste e della frammentazione della froza-lavoro (dato il carattere precario e nomade del lavoro dei rider). Probabilmente ci troviamo davanti a quello che potremmo considerare un problema di scala: occorre spostare la capacità conflittuale dal resistere un minuto in più al resistere una città in più. Uno degli elementi emersi in questi anni è che le piattaforme dispongono di risorse economiche ed umane in grado di resistere su tempi medio-lunghi. L’efficacia e la sopravvivenza del sindacalismo urbano dei rider sono dunque (anche) legate alla capacità di sviluppare una contro-logistica delle lotte, un network delle diverse esperienze in grado di agire in maniera diffua ma coordinata. Detto altrimenti, va ricreata quella dimensione globale che si annida in ogni uso metropolitano delle piattaforme.

Finora la Transnational Couriers Federation – nata a Bruxelles nell’ottobre del 2018 – si è limitata ad essere spazio di discussione di obiettivi e condivisione di pratiche fra esperienze sindacali auto-gestite ma non ha prodotto un salto di qualità dal punto di organizzativo. Ciò non toglie che la scala della contro-logistica delle lotte non debba essere necessariamente pan-europea ma basterebbe costruire una strategia condivisa fra alcune delle città in cui una o più piattaforme sono fortemente sviluppate, come ad esempio stava accadendo durante la primavera con Glovo.


Foto di Maurilio Pirone

Maurilio Pirone

PhD in Politics, Institutions, History
Project Manager for Urban Regeneration

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